Karl Culley non sembra rinunciare al suo racconto di follia e lussuria che il cinismo allontana dal grottesco, ma solo per una mera illusione. L’acrobata del fingerpicking non ama indugiare sulle sue doti di chitarrista, le armi sono affilate (si ascolti “Alcohol”) solo per distrarre dalla complessa architettura lirica delle canzoni, che va di pari passo con i sempre più visionari testi: “Non penso di aver bisogno di un drink, ma non ho un altro posto dove andare… sento l'odore del sangue di un inglese, mi serve un modo per ondeggiare come un girasole”.
Eppure il musicista aveva mostrato un talento duttile e fiero, una propensione alla vivacità che spesso i folksinger trovano superflua: al terzo capitolo era forse lecito attendere un album più morbido e meno radicale del suo metafisico restyling di John Martyn e Tim Buckley, ma Culley predilige ancora una volta toni foschi e plumbei.
Il delicato blues di “Qualifier” è una di quelle gemme che nel repertorio di un cantautore chiacchierato e vezzeggiato dalla critica farebbe gridare al capolavoro: il lirismo irrefrenabile scorre come sangue vergine su un delicato refrain vocale, ma tant’è, non c’è gloria per Karl Culley.
Chi ha la forza e la pazienza per scavare sotto il simbolismo innocuo di “Dragon Kite”, potrà apprezzare quegli schizzi di accordi e quei giri armonici che sembrano ingolfarsi per poi riconquistare un cantilenante inno alla futilità. La frenesia che irrompe da “Icarus And Whisky“ è sì un insieme di abilità tecnica e liricità, ma anche una sequenza incontenibile di accordi cristallini che non ostentano sicurezza ma terrore: “Beviamo e sogniamo per sfuggire da questo posto con le ali e cera…”.
Karl Culley naviga con agilità tra le pieghe del folk inglese più audace, ed è quando osa che la musica raggiunge una zona indefinita che non appartiene al semplice songwriting: questo avviene nella già citata ““Silver Set Of Bones”, nella straziante “Spell” ("ho paura ma voi siete qui, qui...") o nel folk spettrale di “In Another Life” (brano indicato come n. 11 ma in verità decimo brano del cd) e nella insana mania omicida della conclusiva “Blood Spot Constellations”.
Ma la vera sorpresa di questo terzo album è che il musicista sembra aver trovato la chiave sonora perfetta per traghettare il suo affascinante insieme di suoni acustici ritmi e preziosismi lirici, lontano dalla dimensione temporale di molti suoi colleghi. Ancor più intimo e personale, “Phosphor” è una luce fioca ma costante, un prezioso antidoto alla povertà d’ispirazione e coraggio di molti eroi del cantautorato indie, un folk-blues che suona tagliente e malinconico, un ambizioso minimalismo strumentale quasi sospeso tra realtà e finzione.
(18/12/2013)