Puntuali come orologi svizzeri, tornano gli alfieri di Trondheim che, come (quasi) tutti gli anni, licenziano entro il primo quadrimestre un nuovo disco e annunciano un tour che puntualmente tocca anche la nostra penisola. Una consuetudine che coincide con l’avvento della primavera, un appuntamento divenuto piacevole tradizione per i fedelissimi fan della band.
In venticinque anni di carriera i Motorpsycho di colpi ne hanno sbagliati ben pochi, nonostante i continui cambi stilistici: se nella memoria collettiva restano impressi soprattutto gli irripetibili filotti di metà anni 90, anche in tempi recenti Hans Magnus “Snah” Ryan e Bent Saether (oggi assieme al batterista Kenneth Kapstad, subentrato nel 2005 allo storico Hakon Gebhardt) non hanno certo lesinato idee ed energie.
Per “Still Life With Eggplant” (traducibile in “natura morta con melanzana”) i Motorpsycho sono tornati ad incidere nello studio dove nel 1994 partorirono l’enciclopedico “Timothy’s Monster” (onorato tre anni or sono con una monumentale reissue composta da ben quattro cd), ed hanno accolto un secondo chitarrista, lo svedese Reine Fiske, classe 72, molto noto in Scandinavia nella scena psych-prog per i suoi trascorsi con i Dungen.
Contando soltanto cinque tracce, per una durata complessiva relativamente contenuta, circa tre quarti d’ora, “Still Life With Eggplant” risulta uno dei dischi più “maneggevoli” della band norvegese. I Motorpsycho confermano il perdurare di un invidiabile stato di salute, dimostrato sin dall’iniziale cavalcata elettrica “Hell”, un compendio che prende spunto dai riffoni hard rock primordiali dei Black Sabbath, attraversa lo stoner dei Queens Of The Stone Age, aggiunge istinti melodici nelle linee vocali e, dopo l’inevitabile solo smaccatamente seventies, chiude con minimalismi di impronta hendrixiana.
Gli omaggi proseguono con la personale rilettura di “August”, un pezzo dei Love che (se la memoria non ci inganna) è la seconda cover inclusa in un album dei Motorpsycho, dopo la “California Dreamin’” che nel 1992 figurò in “8 Soothing Songs For Ruth”.
“Barleycorn (Let It Come/Let It Be)” parte bucolica, con il fingerpicking di Fiske in gran spolvero, e si apre prima in un portentoso ritornello e poi in sereni slanci strumentali, conducendoci verso gli sperimentalismi della più strutturata “Ratcatcher”, una mini suite di 17 minuti che ridisegna quegli scenari cosmico- psichedelici ben perseguiti anche in altri recenti lavori, arrivando a lambire i confini con il prog ed il free form jazz. E’ la parte più avventurosa del disco, dove i norvegesi rischiano di cadere nel solito peccato veniale, quello di specchiarsi troppo in sé stessi generando qualche lungaggine di troppo. Peccato assolutamente perdonabile, vista la maggiore sintesi messa in campo questa volta, che consente a “Still Life” di ergersi almeno mezza spanna oltre il coraggioso polpettone dello scorso anno, “The Death Defying Unicorn”.
Il viaggio si conclude fra le spire di “The Afterglow”, imperiosa ballad elettroacustica dal lieve retrogusto folkie, quasi un sollievo per le orecchie, sprazzi di placida tranquillità dopo le digressioni soniche dei quattro vichinghi.
“Still Life With Eggplant” non ha l’immediatezza di “Blissard”, la rocciosità di “Demon Box”, né tanto meno riesce a replicare la potenza caleidoscopica di “Trust Us”. Al suo interno non ci sono una nuova “Vortex Surfer” o un inno alla “Kill Some Day”, nonostante questo è senz’altro inseribile fra le migliori prove di una band tanto prolifica quanto qualitativamente eccelsa. Una delle migliori degli ultimi venticinque anni. La migliore in assoluto per il sottoscritto.
21/04/2013