"Age is a manifesto of truth written primarily in F-minor.
And F-minor, we all know, is the key of lament and dejection,
yet also of longing and a dark, helpless melancholy"
Scrivere un disco in Fa minore, raggiungere una consapevolezza stilistica ma soprattutto umana è forse qualcosa che capita poche volte nella vita; in verità accade sporadicamente di prendere coscienza di ciò che sta accadendo attorno a noi, come un osservatore esterno che guarda il nostro sé compiere i gesti che lo caratterizzano.
Questo accade nel 2014 a Joel Gibb, fondatore e leader degli Hidden Cameras, la band canadese che a inizio anni Duemila incominciò una scalata politico-musicale per i diritti della comunità omosessuale internazionale, attraverso diverse dichiarazioni pubbliche - da articoli su "The Advocate" a performance live all'interno di chiese, con ballerini drag a seguito - e una serie di album che con "Age", il quinto, delinea una rinnovata sfera morale.
L'intento dichiarato di Gibb è quello di mostrare e dimostrare l'avvenuta maturità e responsabilità nei confronti del pubblico, perché fare il
songwriter è mestiere difficile, complesso e non esente da responsabilità comunicative. Nelle riflessioni del
frontman canadese la trasparenza nel mostrare non solo il lato fenotipico dell'età che avanza, ma l'essenza, il pensiero che muove poi l'azione, facendolo attraverso otto tracce manifesto in cui compaiono sempre più aromi orchestrali, archi non più accennati ma portanti, per un disco che si rivela non semplicissimo al primo ascolto, nonostante la breve durata.
Il
pot-pourri di composizioni musicali è diretto dall'inconfondibile anima canora del Nostro che chiarisce una volta per tutte la definizione di "Gay Church Folk Music": una voce ecclesiale e liturgica, canonica nel riverire ai nostri orecchi l'essere concettuale, attraverso profondi bassi percussivi ("Skin And Leather") e concedendoci respiro nel ritornello di "Bread For Brat" (alla
Jethro Tull) che spazia tra distese aperte poco dopo aver traversato gli stretti cunicoli creati dagli accenti dei violini.
Il singolo di lancio, "Gay Goth Scene", è palcoscenico che pubblica la manifesta volontà d'emancipazione, inserito nel contorno di un pop sintetico oscuro ("Doom") e un dub inaspettatamente ombroso, come una riflessione "fumosa" ("Afterparty"); e un po' come fece Paul Mathews - bassista della band - con un bel disco di fine 2013 nei
DIANA, "Carpe Jugular" è tributo ai primi giocattoli elettronici (
Yellow Magic Orchestra), che avvia alla chiusura della
ballad "Year Of The Spawn", sulla linea del precedente "Origin:Orphan", da recuperare in maniera assoluta.
Gli Hidden Cameras ritornano con un lavoro maturo, seguendo i sentimenti che da sempre frullano nel cuore di Gibb e spostando l'asticella in uno spazio nuovo, dedicato alla comunicazione responsabile più che alla novità musicale
tout court.