La prima volta in cui si sono incontrati era una notte del 1996. Il teatro, ovviamente, New York. Joseph Arthur non era altro che un aspirante songwriter, deciso a fare colpo su Peter Gabriel per riuscire ad accasarsi alla Real World. Non immaginava certo che ci sarebbe stato anche Lou Reed, quella sera, a sentirlo suonare sul piccolo palco del Fez. E tantomeno immaginava che si sarebbe trovato alla fine a mangiare un gelato proprio in compagnia di Mr. Reed…
Da allora, la vita li ha allontanati e poi riuniti di nuovo più di una volta. Come succede a tutti, in fondo. “Ma anche se non ho mai perso di vista chi era – il mio eroe – per me è diventato semplicemente Lou”, ricorda Arthur. Suona quasi naturale, allora, trovarsi tra le mani un disco di Joseph Arthur con solo quel nome in copertina, “Lou”. Perché è chiaro che non si tratta del solito tributo un po’ opportunista a una rockstar scomparsa. Piuttosto, è qualcosa che ha a che vedere con l’ultimo pensiero rivolto a un amico. Un amico che è stato uno dei più grandi di sempre nell’arte di scrivere canzoni.
L’idea, in realtà, è nata da Bill Bentley della Vanguard Records: dopo aver letto l’articolo in memoria di Lou Reed scritto da Arthur per “American Songwriter”, ha pensato subito di chiamarlo per proporgli di realizzare una cover. All’inizio, Arthur era riluttante: “È strano danzare intorno alla morte, ancor più se si tratta della morte di una leggenda. Non sai mai che cosa sia appropriato e che cosa no, che cosa condividere e che cosa tenerti dentro”.
Poi, rimasto da solo nel suo appartamento di Brooklyn dopo mesi di tour, ha cominciato a provare a suonare “Coney Island Baby”, da sempre uno dei suo brani preferiti di Reed. E finalmente tutto il vuoto, il dolore e il rimpianto che aveva trattenuto fino a quel momento hanno cominciato a sciogliersi nella musica. Mentre fuori la neve si accumulava lungo le strade, Arthur è rimasto chiuso in casa per dieci giorni, immergendosi sempre più profondamente nel canzoniere del suo vecchio amico e maestro. Alla fine, invece di una sola cover, aveva pronto un intero album. Il suo modo di dire addio.
Due microfoni per catturare il calore dell’istante, chitarra e pianoforte a intrecciare la trama, la voce che accarezza ogni verso come a volerne svelare il segreto: è tutto qui il cuore di “Lou”. “Mi sono dato una regola”, spiega Arthur. “Niente batteria o elettricità. Lou era elettrico. L’unico modo che conoscevo per dare nuova vita a qualcosa di così ricco di vita come le canzoni di Lou era affrontarle in una maniera completamente differente”.
Nell’era dei talent, cover è diventato sinonimo di ego: nient’altro che un modo di mettere in mostra sé stessi. Ma misurarsi con una canzone altrui è questione prima di tutto di immedesimazione: entrare nell’intimo di qualcun altro, trovare un punto di corrispondenza nascosto in fondo all’anima e tornare a raccontarlo con la propria voce. Esattamente il genere di immedesimazione che vibra nei dodici episodi di “Lou”: una raccolta di riletture ridotte all’osso, in cui due sguardi vanno a rispecchiarsi l’uno nell’altro.
La vita dei bassifondi della Grande Mela, cantata da Reed nei suoi brani più celebri (da “Walk On The Wild Side” a “Satellite Of Love”), assume nella versione di Arthur un tono di nostalgica dolcezza. Fare propria ogni canzone senza tradirne lo spirito: è questa la chiave che gli consente di addentrarsi anche negli angoli meno scontati del canzoniere di Reed. Brani come “NYC Man” o “Magic And Loss” potrebbero venire direttamente da “The Ballad Of Boogie Christ” (non a caso il capitolo più loureediano della discografia di Arthur), ma con lo spirito asciutto ed essenziale sfoggiato di solito dal vivo dal songwriter americano.
Ecco perché “Lou”, al di là del semplice album tributo, si rivela una delle migliori prove firmate da Arthur negli ultimi anni. Basta sentire come “Sword Of Damocles”, prosciugata da ogni traccia di enfasi, conserva intatti i suoi spunti melodici, trasfigurandosi in una trepidante parabola sull’incombere della morte. Tra il falsetto di “Wild Child” e la leggerezza solo apparente di “Stephanie Says”, lo spoken word di “Dirty Blvd.” riflette più che mai l’affinità con le corde di Arthur. E la declinazione acustica riesce a rivaleggiare in intensità con gli originali anche di fronte a un classico quasi intoccabile come “Heroin”, suonando prevedibile solo quando ricalca i modelli più sfruttati (“Pale Blue Eyes” su tutte).
Non c’è miglior epilogo, allora, del brano da cui tutto è cominciato: “Coney Island Baby”, sussurrata da Arthur come una sorta di inno metropolitano alla “gloria dell’amore”. L’amore che ti guarda attraverso, fino a scoprire chi sei veramente. L’amore che sopravvive anche allo strappo dell’addio.
03/06/2014