Profonda malinconia e smarrimento interiore: sono queste le sensazioni che generano i primi minuti di “Soften Our Evil Hearts”, brano che inaugura questo sesto lavoro dei Menace Ruine. Una campana che risuona a morto sullo sfondo, una pulsazione insistita come dei Suicide prosciugati e, poi, la voce ieratica di Geneviève che scolpisce per l’ennesima volta il nome di Nico nel cuore.
“Venus Armata” è un’opera che si abbevera alla sorgente di un Medioevo “atemporale”, producendosi in solenni litanie folk-industrial che sembrano ormai avviate verso la definitiva risoluzione di quella “unità degli inconciliabili” che, giusto quattro anni or sono, rappresentava l’essenza ultima della loro musica. Ma è una risoluzione che, a dirla tutta, sta progressivamente appiattendo le potenzialità del duo canadese, qui alle prese con risultati sicuramente più ragionati ma anche privi di quegli sprazzi di assoluto terrore e smarrimento che emergevano dalle pagine più importanti dei loro primi dischi.
L’impianto ritualistico di queste celebrazioni spirituali è ben esemplificato dall’incedere marziale di “Red Sulphur”, che nasconde improvvisi picchi melodici dietro scoscendimenti tastieristici, da una “Soothing But Cruel” che si dilata fino a frantumarsi oltre la soglia dell’orizzonte, mentre il vortice del tempo continua inarrestabile con le sue contraddizioni o, ancora, dalle cadenze tribali di “Torture Of Fire”.
In “Marriage Of Death”, il contrasto tra il tragico abbandono della voce e il calibrato rumorismo di S. de La Moth producono un effetto ipnotico che contrasta con tutta la prima parte di “Belly Of The Closed House” (cinque minuti circa), scolpita da un sibilo stridente e dolorante. Ciò che emerge è un nevrotico tour de force appena lacerato da una voce che andrà a concludere la sua odissea sfibrandosi come un drone incancrenito.
In coda, gli oltre sedici minuti del brano eponimo dovrebbero rappresentare il compimento ultimo di questa tremula inclinazione per l’invisibile ma, fatta eccezione per una coda leggermente più tribolata, finiscono per evocare soprattutto ridondanza e carenza di ispirazione.
30/10/2014