Trentotto anni. In una scena musicale dove sono ben pochi gli alfieri ad aver raggiunto all’anagrafe un simile traguardo, i Fleshtones possono vantarlo in termini di carriera. Con lo slancio dei ragazzini, per giunta, in formazione tipo da sempre eccetto che per il rincalzo venticinquennale del bassista elegantone, Ken Fox. Rispetto alle minestre riscaldate su fuochi di fortuna, alle compagini che muoiono e risorgono ogni lustro o consumano pezzi di ricambio a velocità supersonica, motore incluso, la forza del quartetto newyorkese risiede nella sua compattezza granitica e in una filosofia operativa che si è rivelata egualitaria non soltanto a parole. Questo può spiegare in maniera esauriente anche il motivo per cui il gruppo, al di là di una vena live inesauribile e mostruosa, continui a far uscire con buona regolarità album che – piaccia o meno il genere – non possono certo essere tacciati di scarsa vitalità o bieco opportunismo. Un’accolita di sopravvissuti, magari, ma in forma invidiabile; anacronistici per antonomasia, eppure abituati a farsi beffe degli oziosi schemi della critica per tornare di moda a scadenze regolari. E neanche poi troppo fossilizzati sullo stesso logoro cliché, se l’anomala introduzione e l’intermezzo di rito nella loro più recente fatica, “Wheel Of Talent”, sono a sorpresa appaltati a un affilato quartetto d’archi. Il ruolo di vocalist concesso pro tempore all’indiavolato chitarrista Keith Streng, assieme a una quanto mai insolita strizzata d’occhio al garage-soul di marca Dirtbombs, completano lo spiazzante quadretto d’abbrivio lasciando intuire che le novità gustose non mancheranno, almeno in questa occasione.
Tutto parrebbe tornare alla normalità quando prende a girare sul lettore la traccia numero due, si fanno largo le chitarre elettriche e il timone torna nelle mani del solito, gigionesco, Pete Zaremba. Ma è una pia illusione, un fuoco di paglia, la modesta dose di metadone fleshtonsiano concessa ai tossici più inguaribili, tra gli aficionados. “What You’re Talking About” annuncia peraltro un perentorio ritorno di fiamma per il power-pop e il beat revivalista degli esordi, rispetto agli ultimi (preziosi) lavori dal taglio apertamente punk-rock: una dimensione che, pur trascurata in studio, i quattro del Queens non hanno mai smesso di coltivare nelle loro performance rigorosamente sopra le righe. E, a proposito, ecco finalmente pubblicato uno dei cavalli di battaglia dei loro concerti recenti, “Remember The Ramones”, omaggio mimetico più che solo nominale alla leggendaria band di Forest Hills, divertissement di quelli buoni perché affettuoso e sincero come pochi. Non manca la dichiarazione d’amore ai Fab Four, in un passaggio (“Stranger In My House”) che rispolvera un pur defilato Farfisa e aggiunge sul piatto molto altro ancora, dagli Stones agli Stooges ai Cramps, ovviamente in sedicesimo.
L’entusiasmo trova convalide importanti nella soddisfacente resa di numeri che non si potrebbero immaginare più derivativi, ma che il collettivo torna a interpretare con la giusta convinzione dopo quasi tre decadi di degne alternative. Le canzoni che riportano con prepotenza ai primi anni 80 e alle loro dinoccolate rivisitazioni dei Sixties più mitologici si susseguono a ritmo accelerato, tra urletti, gorgheggi di Gibson (“Roofarama”), jangle incalzanti, appassionati quanto autoreferenziali botta e risposta (“It Is As It Was”) e un Keith ancora indomabile protagonista (nelle parti cantate come negli assoli d’ordinanza), gran maestro di cerimonie in quella che ha proprio tutta l’aria di una festa.
L’assenza di pezzi veramente forti – sulla falsariga di “American Beat” o “I Was A Teenage Zombie” – si fa sentire, ma il livello medio di una scrittura sempre affidabile come la loro rimane comunque lusinghiero. “E Zaremba?”, si chiederà qualcuno. Che ne è del frontman in questo allegro bailamme? Gioca in sordina, non c’è dubbio. Però gioca. Evidentemente tonificato dai fiati, nell’implicito tributo a tanto immaginario della canzonetta che è “What I've Done Before” veste i panni del crooner e regala un’interpretazione epica. Poco oltre (“Just For A Smile”) insiste nella sua celebrazione del rockabilly ma lo fa rinunciando al suo ruolo di ingombrante mattatore, ritagliandosi da comprimario un piacevole duetto con la cantante dei Southern Culture on the Skids, Mary Huff.
Ad arricchire la proposta pensano un paio di episodi volutamente eccentrici: “The Right Girl”, passaggio decorativo che lega jangle-pop e vocalismi teatrali à-la Monthy Python, con esiti curiosi ma nient’affatto malvagi; e “Veo La Luz”, ideale bonus dalla recente sbandata degli attempati guasconi yankee per il rock’n’roll di stampo messicano e relativi luoghi comuni (l’Ep “Quatro X Quatro”). Espediente perfetto, quest’ultimo, per infiammare la vena alticcia, sporca e viziosa che è da sempre nelle corde del gruppo, più simile così a dei Ween pezzenti e tutto cuore che non a tanti innocui (e non troppo sinceri) garage-rockers dell’ultima onda, un nome per tutti i Lenguas Largas. Da applausi in “Hipster Heaven” la gioiosa presa in giro di certe stravaganze contemporanee in perfetto stile Fleshtones (ballabile, trascinante, scanzonata e strafottente, proprio come loro), buon termometro di uno stato di salute confortante e insieme orgogliosa rivendicazione di indifferenza alle vacue suggestioni – artistiche e non – di un presente oggettivamente osceno. Nostalgico e romantico oltre ogni limite, infine, il congedo “Tear For Tear”, ideale manifesto identitario per una formazione da cui sarebbe ormai insensato pretendere nulla più di quanto già fa con così tanto slancio.
“Pardon Us For Living, But The Graveyard Is Full”, recitava il titolo di un documentario dedicato alla band nel 2009. Ironia delle ironie: quasi quarant’anni di manna per i seguaci e loro ancora lì, a scusarsi quasi per tutta la sconfinata generosità profusa dalla loro comoda e sudicia nicchia.
25/01/2014