Pur nel suo understatement, nei suoi movimenti melodici appena accennati, nelle sue interpretazioni trattenute, la musica di Daniel Martin Moore è ormai diventata inconfondibile, per la sua caratteristica atemporalità, per la sua eleganza colloquiale, che sprigiona i profumi “organici” di un abbraccio con un vecchio amico ("To Make It True").
In “Golden Age” il cantautore americano abbandona molto spesso la fida acustica e, sotto la guida del produttore Jim James dei My Morning Jacket, presenta un disco suonato al pianoforte, conferendo una solennità sorniona, Cohen-iana ai suoi brani.
Il nuovo strumento gli permette di svariare e dare una sfumatura anni 70 alla sua musica, come col frizzante Americana di “On Our Way Home”, brano revivalista e pop alla First Aid Kit – per arrivare addirittura a sconfinare nel country-soul di “Our Hearts Will Hover”, come un Tobias Jesso Jr. qualsiasi.
Certamente vanno preferite, per intonazione con lo spirito generale del disco, le tenui atmosfere Barzin-iane di “How It Fades”, un distillato di note che appaiono e scompaiono come portate dal vento. Se si eccettua l’ispirata, struggente title track, però, molti dei brani del disco dimenticano un po’ il tocco magistrale di Moore, affidandosi a vari cliché dell’Americana (il lento “Anyway”, l’ingiudicabile intermezzo “Lily Mozelle”, la soporifera “In Common Time”).
Con una serie di fortunate collaborazioni all’attivo, pare comunque singolare che Daniel Martin Moore si sia dovuto affidare a una campagna di crowdfunding per pubblicare il suo nuovo disco – anche se ormai non è certo l’unico cantautore con un certo nome a essere indipendente da un contratto con un’etichetta (vedi Alela Diane, per esempio, ma anche a Oldham è capitato di fare scelte autarchiche).
Pur lontano dal poter rappresentare la consacrazione presso il pubblico, o la critica, “Golden Age” poteva essere un buon biglietto da visita in un anno in cui la figura del singer-songwriter al pianoforte sembrava essere tornata vagamente più popolare.
26/10/2015