Barzin

Barzin

Nelle stanze della memoria, sottovoce

Artista canadese di origine iraniana, Barzin Hosseini ha saputo elaborare un suo personalissimo stile, incentrato dapprima sulla definizione di un suono lento e cadenzato, in seguito convogliato in una pacata forma cantautorale, intesa quale esclusivo mezzo di esternazione di una sensibilità malinconica. Dall’ovattato approccio “da cameretta” agli arrangiamenti orchestrali, fino all’introspezione comunicativa di “Notes To An Absent Lover”, il timido percorso di un artista che sa toccare le corde del cuore

di Raffaello Russo

Nell’ultimo decennio, il Canada si è affermato con decisione quale terra feconda di molteplici interessanti suggestioni musicali, dalle cavalcate post-rock di Godspeed You! Black Emperor all’ibrida wave degli Arcade Fire, dal songwriting classicamente rock di Destroyer alle diverse e a volte ardite sperimentazioni sonore condotte, in ambito indipendente, da tante band e artisti gravitanti intorno alle varie etichette Constellation, Alien8, Arts & Crafts, Weewerk, etc.
Date queste premesse di quasi endemico fervore musicale e anche in ragione della diffusa tendenza a travalicare generi e definizioni con modalità spesso molto personali, la declinazione canadese del cantautorato malinconico e intimista non poteva non presentare vesti sonore del tutto peculiari, interpretate secondo un registro che dal minimalismo da cameretta si estende a un romanticismo permeato da sonorità tenui e compassate.
Artefice di questo compendio stilistico, tanto sfaccettato quanto realizzato con naturalezza, è l’autore di origini iraniane Barzin Hosseini, ormai attivo da oltre un decennio il suo progetto personale, che pure lo ha visto di volta in volta affiancato da diversi collaboratori, tra i quali spiccano, per rinomanza e importanza di contributo, Tony Dekker dei Great Lake Swimmers, Sandro Perri e Suzanne Hancock, voce femminile spesso impegnata in funzione di aggraziato contrappunto a melodie dimesse e sempre molto misurate.

L’idea sottostante all’intrapresa musicale di Barzin risale al 1995 quando, abbandonata la batteria suonata per qualche anno in una band liceale, “scopre” la chitarra quale strumento d’elezione per l’espressione della sua sensibilità musicale.
Dall’idea alla sua prima realizzazione passeranno alcuni anni, impiegati da Barzin a plasmare una personalità artistica naturalmente votata a un’espressione poco appariscente, incentrata su esili melodie, eppure non aliena da spunti compositivi riconducibili alle recenti o coeve esperienze dello slow-core o del post-rock più soffuso e malinconico.

L’omonimo album di debutto, composto intorno al 2000, vede infatti la luce soltanto nel 2003, pubblicato in Canada da Where Are My Records e in Europa dalla francese Ocean Music. Registrato in media fedeltà, racchiude otto tracce dal sentore intimo e dalla durata mediamente lunga, che presentano fisionomie abbastanza complesse, incentrate come sono su un cantato lieve e su timide trame melodiche, alle quali fanno da sfondo ritmiche compassate tuttavia non prive di frammentazioni di matrice codeinica. Prova immediata ne è l’iniziale “Pale Blue Eyes”, canzone soffusa e in apparenza indolente, eppure percorsa da fremiti che ne sottolineano l’incedere sofferto.
Il tono introspettivo e la lentezza delle composizioni, talora quasi prossima all’immobilità, si atteggiano quali costanti di un registro espressivo tuttavia in continua, graduale trasformazione. Se infatti tutti i brani sono intesi a creare atmosfere estremamente raccolte, Barzin riesce a plasmarne la superficie attraverso una tecnica chiaroscurale nella quale chitarra acustica, pianoforte, accenni elettronici ed esili distorsioni si susseguono e si intersecano in accostamenti mai scontati.

Nel corso dell’album, si passa così dal semplice battito elettronico di "Over My Blue" al romanticismo di "Autumn & Moon", fino alle aderenze ambientali della conclusiva "Sleep". Tuttavia, i passaggi di gran lunga più intensi di questo debutto timido ma dal carattere ben definito coincidono con “Past All Concerns” e “Cruel Sea”, brani intrisi di profondo lirismo e intensa partecipazione emotiva, nei quali si percepiscono chiaramente le doti melodiche e di scrittura cantautorale di Barzin. La prima è un’accorata canzone d’amore, la cui mestizia viene resa sognante anche dal controcanto femminile di Suzanne Hancock che, unito alle atmosfere eteree, richiama alla lontana le raffinate carezze dei Mazzy Star; la seconda è invece un affresco nostalgico incentrato sull’intreccio tra distanti note pianistiche e tenui distorsioni, sorrette entrambe da un battito sordo e incessante, sul quale il cantato serafico si atteggia quale unico elemento omogeneizzante.
Proprio in simili sfumature si percepisce il carattere dell’autore e la sua capacità di coniugare suono, scrittura e autenticità espressiva, elementi fondamentali e niente affatto compromessi dalla forma scarna e dalla realizzazione poco più che casalinga.

Sulla scia della pubblicazione europea del debutto da parte di un’etichetta francese, Barzin comincia a riceve positivi riscontri oltralpe, che l’anno successivo si traducono nella realizzazione per la micro-label francese Hinah di un mini album in cento copie cd-r.
L’insolita tipologia dell’uscita non costituisce la sua unica peculiarità, poiché Songs For Hinah si atteggia quale raccolta connotata da un ampio senso di collaborazione, risultante dal contributo, anche in termini di scrittura di Dekker e della Hancock, nonché di Chris Stringer, responsabile del sorprendente impianto sintetico di “Just More Drugs” e in generale dei cullanti arrangiamenti di quasi tutti i nove brani del lavoro.
Ad eccezione di tre sole vere e proprie canzoni, il mini album – dalla durata totale di ventisette minuti – è costituito da frammenti strumentali che coniugano melodie catatoniche a un battito lento e invariabile, dando luogo a trame proto-ambientali di dolcezza vagamente straniante.
Se nei brani strumentali ricorrono ancora sfumature elettroacustiche e cadenze slow-core, sempre però filtrate secondo la medesima attitudine già dimostrata nell’album d’esordio; decisamente più eterogenee sono le tre canzoni, che interpretano il loro comune denominatore di un romanticismo di fondo prima attraverso le sognanti basi elettroniche alternate ad arrangiamenti d’archi di “Just More Drugs”, poi nella sognante psichedelia a sola base pianistica di “A Boy With His Heart” – interamente firmata e interpretata in maniera incantevole dalla sola Suzanne Hancock – e infine nella più articolata “Dream Song”, accorata confessione di fragilità sentimentale, realizzata con semplici note acustiche e un leggero filtraggio vocale.
Disco breve ma non per questo interlocutorio, Songs For Hinah costituisce un ambito ideale per l’elaborazione del suono di Barzin e – probabilmente anche in ragione della limitatissima diffusione della sua edizione originale – si rivelerà un piccolo scrigno dal quale l’artista canadese tornerà ad attingere nei dischi successivi, rielaborandone in parte alcuni dei brani.

Il seguito vero e proprio dell'album d'esordio è costituito da My Life In Rooms, lavoro che conferma la vena intimista di Barzin, incorniciandola con ottime capacità cantautorali e con una poliedrica sensibilità artistica.
Il lavoro conduce un'accurata ricerca della formula meglio in grado di adattarsi all'introspezione che traspare dalla voce e dai testi dell'artista canadese, ora supportati da arrangiamenti avvolgenti, che ospitano indifferentemente soffuse ritmiche elettroniche e dilatazioni ambientali, ma anche chitarra, vibrafono e altre strumentazioni tradizionali, che nel loro insieme danno vita a strutture musicali sospese tra un mood malinconico (ma non per questo cupo) e limpide melodie permeate da un'innocente e quasi stupita osservazione del mondo esteriore e di quello interiore.
La musica di Barzin tende infatti a chiudersi in se stessa, ad assaporare il gusto agrodolce dell'introspezione e di un isolamento nel quale solo a tratti penetra un raggio di sole. Ma laddove, ad esempio, Mark Kozelek (assimilabile per l'incoercibile malinconia) concentra le sue composizioni nell'essenzialità di sola voce e chitarra, Barzin ricerca una forma espressiva più articolata e obliqua, nella quale tristezza e assenza traspaiono soltanto, diluite in uno stile essenziale eppure arricchito da molteplici fascinazioni sonore, esplicantisi nell'utilizzo di una strumentazione varia, comprendente tanto un modesto impiego dell'elettronica, quanto soprattutto elementi orchestrali, che contribuiscono alla romantica drammaticità del risultato musicale.

Per comprendere la tangibile maturazione stilistica di Barzin, è sufficiente già lasciarsi cullare dalla melodia in loop che sorregge "Let's Go Driving", brano impregnato di un romanticismo ovattato e quasi mistico, cui contribuisce un cantato denso di sensazioni sospese tra una lieve ingenuità adolescenziale e una sorta di placido torpore di fronte alla constatazione della desolazione e dell'inquietudine esistenziale. Sono queste le caratteristiche preponderanti di My Life In Rooms, che ricorrono in canzoni di una semplicità disarmante, dall'andamento spesso circolare e altalenante tra diversi registri emotivi e sonori, tra passaggi di indolente introversione e aperture armoniche contrappuntate dall'aura solenne. Anche qui non mancano variazioni di registro, dall'organo vintage di "So Much Time To Call My Own" al beat sintetico della rielaborazione di "Just More Drugs", dalla inaspettata solare levità di "Won't You Come" alla reinterpretazione in chiave personale e dilatata della classica ballad, racchiusa in "Take This Blue".
Particolarmente emblematica è poi la title track finale, che sublima la tematica principale dell'album, esprimendo il sottile piacere del nascondersi in se stessi, in stanze al sicuro dal mondo esterno, pur nella consapevolezza di non poter così rifuggire dai propri ricordi ed emozioni, irrimediabilmente "in love with everything that is lost", verso che da solo può bastare a descrivere, meglio di mille parole, l'intera poetica musicale di Barzin.
Nella preziosa fragilità delle sue trame melodiche, nel suo essere realizzato quasi sottovoce, My Life In Rooms consacra Barzin tra i più autentici interpreti di una "musica per cuori sensibili", che punta dritta alle emozioni, senza tuttavia tralasciare una definizione stilistica personale e ormai riconoscibile.

L’album è seguito a pochi mesi di distanza da un Ep di venti minuti, Just More Drugs, nel quale accanto all’omonimo brano già presente nell’album e a due intime registrazioni tratte da una session radiofonica (sempre relative a brani di My Life In Rooms, “Let’s Go Driving” e la stessa “Just More Drugs”, in sognante versione acustica), trovano spazio due inediti. Il primo è in realtà una cover sorprendente e delicatissima di “Mistakes” dei Tindersticks, la cui sofferta intensità Barzin traduce nel suo stile introspettivo e dolcemente malinconico; mentre il secondo, “Queen Jane”, rappresenta un’ossimorica invocazione a un’ispirazione che stenta a concretizzarsi e che, a dispetto del testo, mostra di non necessitare di spunti esogeni, trovando invece esclusiva origine nella sensibilità dell’autore e nel suo desiderio di esternare sentimenti in maniera sempre più esplicita, come dimostrano la rotondità delle melodie e il liberatorio finale, con la chitarra elettrica mai così tangibile.

Il medesimo intento comunicativo si riscontra poi nel successivo Notes To An Absent Lover, album come sempre molto ponderato nella sua scrittura e realizzazione e concepito come un diario, una narrazione intima e niente affatto edulcorata sui temi del ricordo e dell’assenza. Di pari passo con l’oggetto delle sue nove canzoni, il lavoro sembra spostare l'attenzione di Barzin dalla mera definizione di un suono consolidato a quella di un profilo più schiettamente cantautorale, viatico decisivo per amplificare l'efficacia di nove canzoni nelle quali cantato e melodie si fanno più decise, quasi a compensare la fragilità emotiva riscontrabile tra le intense righe dei testi.
Ogni canzone, ogni nota e parola, costituiscono i luoghi di questo viaggio dolorosamente dolce nell’assenza. Un percorso intrapreso nel tentativo di sciogliere la memoria in tanti rivoli di malinconia, attraverso i quali far scomparire il dolore, e consentendogli di trasformarsi in altro. Barzin ci conduce per mano attraverso melodie ovattate e al tempo stesso decise, che completano le abituali cadenze, rallentate con la romantica fluidità apportata dagli onnipresenti arrangiamenti d'archi, sciolti sulle note del pianoforte e della chitarra.

Se la complessiva maggiore sicurezza espressiva denota un'ulteriore maturazione nel songwriting, sorprende invece vederla sfociare nell'abbandono di cadenze prossime allo slow-core in favore del solare andamento uptempo di "Look Was Love Has Turned Us Into". Eppure, proprio qui diviene stridente il contrasto tra l’apparente imperturbabilità e l’alienazione derivante dalla sconfitta nella partita dell'amore e dalla perdita di quella bellezza che permette di riscoprire l'innocenza del mondo.
Al progressivo ripiegamento dell'artista canadese nelle stanze della memoria corrisponde l'esigenza di una forma espressiva intima e ariosa che, tuttavia, non sacrifica affatto la cura per ambientazioni sonore avvolgenti. Lo sforzo comunicativo va, infatti, di pari passo con melodie e arrangiamenti morbidi e diretti, ancorché più convenzionali rispetto a "My Life In Rooms". L’album, quindi, riesce ugualmente alla perfezione nella sua progressione emotiva, regalando dolci spaccati di romanticismo quali “Soft Summer Girls”, “Look What Love Has Turned Us Into” e la toccante “Stayer Too Long In This Place”, senza dubbio tra i pezzi più coesi ed efficaci usciti dalla penna dell’artista canadese. Emblematico è a tal proposito il conclusivo abbandono al sogno di “The Dream Song”, brano già edito in Songs For Hinah, la cui versione decisamente più rifinita e romantica rispetto all'originale sembra chiudere il cerchio, rielaborando il passato alla luce del presente ed esaltando il senso di umana fragilità ("so I became the king of all things weak") che costituisce in fondo l’essenza ultima della personalità di Barzin e del suo stile cantautorale denso e personalissimo.


Nel 2014 esce To Live Alone In That Long Summer: uno skyline avvolto nella foschia a rappresentare l’insieme, remoto e imprendibile, delle vicende umane, quelle conosciute e tutte le altre, mentre la mente si crogiola in rimembranze edulcorate dalla solitudine, in una passeggiata casuale per una città deserta (suggestiva la progressione di "In The Morning").

È questo il mirabile quadro in cui il nuovo disco del canadese si ambienta, dopo lo strappacuore Notes To An Absent Lover, con un abito vagamente meno romantico ma appunto più urbano, quel tipo di disco di letteratura di emozioni e apatia che Ben Gibbard potrebbe immaginare, senza metterlo in pratica.
Ci riesce invece il caro Barzin, trasportando quel suo inconfondibile, esalato “girls”, sulla punta di una slide, in “It’s Hard To Love Blindly” nell'affranto arrangiamento di "You Were Made For All This", azzeccando in “All The While” un’apertura degna di un “April”, ma senza la consacrazione di Pitchfork; dissolvendo per il tramonto sull’Hudson le parole perdute di “Stealing Beauty”.

Coadiuvato dalle voci migliori della scena cantautorale canadese (Tony Dekker e Tamara Lindeman aka The Weather Station), Barzin realizza così un seguito naturale di Notes To An Absent Lover, donandogli un’ambientazione meno claustrofobicamente romantica e affettata, pur ricalcando diverse soluzioni a livello compositivo. Un bell’affresco di solitudine affettiva metropolitana.

Servono ben nove anni per avere un nuovo album di inediti e finalmente nel maggio del 2022 esce Voyeurs In The Dark, un disco spiazzante che si immerge in sonorità noir dove Barzin sperimenta con ritmiche ossessive e ipnotiche.
Il cantautore è sempre riconoscibile per via delle sue liriche, sempre molto intime e ai limiti del confessabile, ma continua a dare il meglio di sé negli episodi dal sapore più classico, come nello splendido dondolare di "Knife In The Water". La mezz'ora asciutta del disco scorre via senza intoppi, grazie anche a una struttura dove brevi intermezzi strumentali fanno da intervallo alle sue composizioni, come dei "Quadri di un'esposizione" di un Musorgskij in tinta folk, regalando il meglio nello splendido finale composto prima dalla toccante "To Be Missed In The End", con la voce di Barzin che vibra quasi commossa fino a congedarsi per lasciare spazio a un pianoforte grave e drammatico in "Distant Memories"
Un gradito ritorno che non può che far sperare in un'attesa decisamente meno lunga fino al prossimo lavoro.

Contributi di Lorenzo Righetto ("To Live Alone In That Long Summer") e Michele Bordi ("Voyeurs In The Dark")

Barzin

Discografia

Barzin (Where Are My Records, 2003)

7,5

Songs For Hinah (Hinah, 2004)

7

My Life In Rooms (Weewerk/Monotreme, 2006)

8

Just More Drugs Ep (Monotreme, 2006)

7

Notes To An Absent Lover (Monotreme, 2009)

8

To Live Alone In That Long Summer(Monotreme/Ghost, 2014)

7

Voyeurs In The Dark (Monotreme, 2022)

7

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