C’era davvero bisogno di rendere pubblica tutta l’approssimazione e tutto il disagio di uno dei più grandi protagonisti musicali degli ultimi trent’anni?
Quello che Kurt Cobain decise di far conoscere al mondo lo mise nei dischi in vita, e quanto emerso dal canto del cigno “Unplugged In New York” non poteva che far presagire scenari differenti, evoluzioni sonore che avrebbero portato la sua scrittura altrove, fuori dai sentieri grunge fino allora trionfalmente percorsi.
“Montage Of Heck: The Home Recordings” sarebbe giunto fuori tempo massimo già nel 1994, figuriamoci oggi: un assemblaggio di siparietti, alcuni brevissimi, registrati in perfetta solitudine su musicassette dell’epoca mentre la fidanzatina era al lavoro, mentre era innamorato di Courtney, mentre cresceva la piccola Frances Bean, oppure mentre bramava in segreto di dare un precoce epilogo alla propria esistenza.
Kurt che suona qualcosa con la chitarra acustica (“The Happy Guitar”), magari gorgheggiando ipotesi di strofe (“The Yodel Song”), Kurt che impronta riff elettrici (“Rehash”) o gioca con l’effettistica (“Reverb Experiment”), Kurt che accenna frasi senza musica (“Sea Monkeys”, “Aberdeen”) e strimpella i Pixies, tutte take che il leader dei Nirvana non avrebbe mai diffuso, vista anche la ritrosia a darsi in pasto tanto ai mass media quanto agli stessi fan adoranti.
Bozze di canzoni realmente presentabili ce ne sono quasi zero, e allora i solchi sono occupati da riempitivi con riprese rumoristiche di scarso interesse (“Scream”, “Kurt Ambiance”, le due “Montage Of Kurt”), e si è costretti a far passare per prodigio qualcosa che probabilmente Cobain stava in maniera riservata dedicando alla Love, un omaggio ai Beatles, “And I Love Her”, qui prescelta per fungere da singolo, con sul lato B la tralasciabile versione primordiale di “Sappy”.
Persino gli early demo di “Been A Son”, “Scoff” o “Frances Farmer” aggiungono un imbarazzante nulla a quanto già noto, non riescono neppure a svelarci l’arcano di qualche vago processo compositivo, solo un ragazzo con la propria chitarra, non un’immersione nella musica di Kurt, bensì nelle sue giornate apaticamente annoiate, alla ricerca di un’idea musicale che potesse rivelarsi vincente.
Il documentario “Montage Of Heck”, tanto apprezzato dai fan quanto criticato da chi i Nirvana magari non li ha mai amati così tanto, ha messo sotto gli occhi di tutti alcuni spezzoni dell’archivio privato familiare di Kurt e Courtney, i moderni Sid e Nancy, e onestamente sarebbe stato meglio se gran parte di quel materiale fosse rimasto chiuso per sempre in un cassetto.
Dalle ricerche eseguite da Brett Morgen, colui che ha assemblato il tutto, sono uscite fuori molte registrazioni casalinghe, si parla di oltre 200 ore di musica vagliate, dalle quali il regista ha scelto gli stralci più (secondo lui) idonei da pubblicare, con il nulla osta degli eredi del cantante.
“Montage Of Heck”, il documentario, va senz’altro visto, questo disco invece può essere tralasciato senza rimorsi: i suoi contenuti, privati delle immagini, hanno davvero poco senso, e ci lasciano addosso più che altro un senso di violazione, senza pudore alcuno.
Se invece volete osare, e non volete accontentarvi della standard edition di tredici pezzi, potete esibire il mandato di perquisizione e portarvi a casa tutte le trentuno tracce della deluxe version.
Un disco inutile, che lascia amarezza e rabbia, un concentrato di disperata solitudine che dimostra quanto in quei cassetti personali non ci sia più niente da tirar fuori, un’operazione evitabile, avente la finalità di mungere denaro da un’icona che probabilmente non aveva il necessario sense of humour per poter accettare la diffusione di queste private home recordings.
Il documento definitivo, oltre a quanto realizzato in vita, dei Nirvana, resta il box enciclopedico (quello sì celebrativo) “With The Lights Out”, che conteneva fra le altre cose la qui presente “Do Re Mi”, un epilogo che odora di tragedia sin nel midollo.
21/11/2015