L’Ep del 2010 “The Melancholy Tides” aveva già sollevato paragoni illustri per la giovane cantautrice scozzese Laurie Cameron, definita da alcuni critici come una versione femminile di Damien Rice. Le frequentazioni e l’amicizia con i Frightened Rabbit e Roddy Womble hanno poi permesso all’artista di sviluppare con calma uno stile più maturo e personale, prima d’approdare all’esordio vero e proprio: “The Girl Who Cried For The Boy Who Cried Wolf”.
Il folk e la tradizione musicale scozzese sono il terreno, l’humus, dove poesia, amore per il mare e luoghi solitari fanno fiorire un dream-folk in bilico tra le suggestioni più elaborate dei Cocteau Twins e quelle più pop dei Deacon Blue. Solido e privo di momenti poco ispirati, l’esordio di Laurie Cameron offre una serie di canzoni amabili e raffinate, con orchestrazioni mai invadenti che alimentano un pathos gradevolmente romantico e onirico, in un equilibrio chamber-folk che risulterà piacevole anche ai non amanti del genere.
Una sorpresa, una piccola rivelazione da custodire con cura, un album fragile in cui si alternano folk-pop gioiosi e pagine più malinconiche, il tutto scritto dalla stessa Laurie, tranne “The Slave’s Lament” di Robert Burns: poeta e compositore che ha lasciato un‘eredità lirica imponente per il folk scozzese.
Per le comuni radici culturali ed etniche, viene spontaneo pensare a Eddi Reader, ma Laurie Cameron predilige elaborare atmosfere più eteree, a tratti quasi psichedeliche, piuttosto che indugiare nel folk-pop elettroacustico della sua conterranea; la sua recente amicizia e tournée coi Turning Plates evidenzia ancor più la sua intenzione di varcare i confini del cantautorato con arrangiamenti complessi e sontuosi.
L’unico episodio più marcatamente pop, “Back From The Brink”, è un grazioso omaggio alla tradizione di Prefab Sprout, Dream Academy e Deacon Blue; la title track, invece, resta nei paraggi del folk con un leggiadro arrangiamento alla Fairground Attraction e un suggestivo break di corno francese.
Sono comunque le pagine più melodiche e sognanti quelle che mettono a punto lo stile della musicista: il crescendo quasi neo-classico di “No Snake Grown Skin” si snoda con fare cinematico, tra un violino che prende il sopravvento sull’orchestrazione e un ritmo che pulsa come un cuore in attesa; la tensione emotiva di “Fare Forward” scava ancor più nel profondo, con la voce che sembra un singhiozzo e il piano che suggerisce foto-frame di luoghi desolati e solitari bagnati dal fragore delle onde e ingialliti dal passare del tempo.
Malinconica ed elegiaca quando accoglie il suono di un organo e struggenti note di violino in “Foreign”, leggera come la rugiada nella quasi impalpabile “The Last Projectionist”, ipnotica e onirica quando scivola sulle note di piano di “Rest And Be Thankful”, la musica di Laurie Cameron è una delle colonne sonore più gradevoli per il nuovo autunno.
28/10/2015