È notte fonda, ma il vecchio televisore in bianco e nero è ancora acceso. Incollato allo schermo, un ragazzino segue avidamente le gesta di un lottatore dai tratti ispanici. La telecronaca è rigorosamente in spagnolo, ma le parole in certi casi non servono: basta guardarlo mentre si lancia dalle corde del ring, pronto ad avventarsi sugli avversari.
Per tutti c’è un tempo in cui la vita ha bisogno di eroi. L’eroe di John Darnielle si chiamava Chavo Guerrero. Da ragazzo non ha mai avuto dubbi: per lui era molto più di un semplice campione di wrestling. Qualcosa di più vicino a simbolo, un’icona. Un giustiziere capace di raddrizzare i torti della vita.
È proprio all’epica del wrestling della sua infanzia, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, che Darnielle ha deciso di dedicare “Beat The Champ”, ultimo nato in casa Mountain Goats dopo la parentesi letteraria di “Wolf In White Van”. Un disco diretto ed energico come non mai, fatto apposta per mettere al tappeto anche chi il wrestling non l’ha mai digerito. Perché il wrestling dei Mountain Goats, prima ancora che lotta, è essenzialmente teatro: l’ultimo vero teatro popolare del nostro tempo.
Sin dal prologo di “Southwestern Territory”, l’epoca è quella avventurosa delle piccole federazioni locali, prima dell’avvento della World Wrestling Federation. E il palcoscenico è quello del Grand Olympic Auditorium di Los Angeles, “where the legends get made”. Il morbido intreccio di pianoforte e fiati rimanda direttamente al precedente “Transcendental Youth”, ma il senso di déjà vu dura solo un attimo. A spazzarlo via ci pensa subito lo spavaldo power-pop di “The Legend Of Chavo Guerrero”, con le sue chitarre squadrate e il suo chorus dal sapore di inno, in cui l’autobiografia si carica di un accento di rivincita: “You let me down but Chavo never once did/ You called him names to try to get beneath my skin/ Now your ashes are scattered on the wind”.
Proprio la varietà di stili è la cifra essenziale di “Beat The Champ” (non a caso il capitolo più lungo di tutta la discografia dei Mountain Goats). La sfuriata punk di “Choked Out” lascia il posto in men che non si dica all’andamento jazzistico stile Broadway di “Fire Editorial”, passando attraverso un’inattesa coda strumentale in “Heel Turn 2”. Un disco delicato e feroce al tempo stesso, capace di alternare la furia dell’istante alla pensosità del tempo che scorre.
Ecco allora l’irresistibile groove a tinte soul di “Foreign Object” portare direttamente sul ring, gli occhi accecati dal sangue e una scheggia affilata tra le mani nel trasporto più selvaggio dell’assalto, mentre la leggerezza dei fiati fa da contraltare al sapore cruento dei versi (“I personally will stab you in the eye with a foreign object”). Il sangue torna a scorrere in “Stabbed To Death Outside San Juan” con la storia di King Kong Brody, ucciso in uno spogliatoio di Porto Rico prima di un match, e gli archi entrano in scena all’improvviso come nella colonna sonora di un film horror.
“Nameless bodies in unremembered rooms”, proclama il wrestler licantropo di “Werewolf Gimmick” sul tuonare minaccioso della batteria: dare un nome e una memoria a quei corpi, in fondo, è da sempre la missione delle canzoni dei Mountain Goats. Tutto fa parte della rappresentazione, anche il travestimento da uomo lupo del protagonista del brano: in gergo la chiamano kayfabe, quella sorta di sospensione dell’incredulità che permette di immedesimarsi in faide, lotte e melodrammi. Ma in “Beat The Champ” c’è di più: “Se racconti una storia d’amore, la gente non cerca nessun altro significato”, riflette Darnielle. “Ma se parli di wrestling, tutti intuiscono subito che ci deve essere qualcosa di più. Le storie di questo disco ti tendono la mano e ti invitano a guardare più in profondità”.
Un invito a chiedersi anzitutto chi siamo veramente, chi si nasconde dietro alle maschere che indossiamo sul ring di ogni giorno. “When I’m alone/ Before a mirror late at night/ I will reveal you”, sussurrano i chiaroscuri di “Unmasked!”. Heel e face, buoni e cattivi, lungo la linea di demarcazione di un copione solo in apparenza immodificabile: il proprio cuore di tenebra, il proprio lato più crudo e primitivo, è sempre in agguato come in “Heel Turn 2”, pronto a prendere il sopravvento proprio quando uno crede di avere imparato le regole del gioco (“Throw my better self overboard, shoot at him when he comes up for air”).
La pedal steel di “Animal Mask” diffonde un inedito aroma alt-country attorno al basso di Peter Hughes, mentre la lotta fianco a fianco in una gabbia d’acciaio finisce per assomigliare da vicino alla promessa silenziosa negli occhi di un padre: “Some things you will remember/ Some things stay sweet forever”.
Per i personaggi di “Beat The Champ”, l’identità è qualcosa che ha a che vedere soprattutto con il tempo, con quello che si è diventati. È l’opposto del wrestler raccontato da Darren Aronofsky, con la sua ombra incombente di sconfitta: è la possibilità di riconciliarsi con i giorni che ci si è lasciati alle spalle. “Nella vita si cambia, persino il proprio corpo si modifica”, osserva Darnielle. “Ma c’è un modo di percepirlo come una crescita e un modo di percepirlo come una decadenza. Abbiamo sempre una scelta”.
Proprio come Bull Ramos, altro storico lottatore texano, frusta in pugno e sorriso indomito nonostante il peso degli anni: il passo scattante di “The Ballad Of Bull Ramos” lo sorprende così, deciso a sfidare le traversie della vita senza soccombere alla nostalgia dei tempi d’oro. Il cuore di “Beat The Champ” è tutto lì, nel senso di trionfo con cui il vecchio gladiatore risponde al chirurgo che lo riconosce sul tavolo operatorio: “Yes sir, that’s me, I’m him”. Darnielle sorride, ripetendo ancora una volta il segreto che ha imparato dal suo eroe di un tempo, dal leggendario Chavo Guerrero: “I don’t know if that’s true, but I’ve been told/ It’s real sweet to grow old”.
07/04/2015