"Some people crash two or three times
And then learn from their mistakes
But we are the ones who don’t slow down at all
And there’s nobody there to catch us when we fall"
(da “Cry For Judas”)
Che cosa significa essere giovani? Avere la follia negli occhi, essere pronti a giocare con il fuoco, comportarsi da incoscienti solo per scacciare l’oscurità. Ma non si tratta solo di questo: l’essenza della giovinezza è qualcosa di molto più radicale. “Just stay alive”, proclama John Darnielle sin dalle prime note di “Transcendental Youth”.
Mantenere vivo lo slancio del cuore, quella selvaggia energia che spinge a desiderare cose grandi, senza curarsi dei rischi o delle conseguenze. È vorace, tumultuosa, incontenibile, la giovinezza secondo i
Mountain Goats. Capace di travolgere ogni cosa nel suo impeto. Il segreto sta tutto nell’andare al nocciolo. E lasciare che la
giovinezza trascendentale diventi la chiave con cui affrontare tutta la realtà.
Un battito impaziente, un pulsare che invade la scena. La foga con cui “Amy Aka Spent Gladiator 1” apre “Transcendental Youth” ha lo stesso accento diretto e vibrante degli
Okkervil River di
“The Stage Names”. Lo scalpitare dei bassi, i
chorus dalla presa istintiva, persino lo sfoggio di un’inedita sezione di fiati: alla seconda uscita targata Merge, i Mountain Goats sembrano pronti per la loro personale “svolta pop”. Quale linguaggio migliore, del resto, per parlare di gioventù? Ma dietro alla veste scintillante di “Transcendental Youth” si nasconde un’anima tutt’altro che solare: come sempre, le canzoni dei Mountain Goats non hanno nulla di accomodante o consolatorio. Nemmeno la recente esperienza della paternità sembra essere riuscita ad ammansire Darnielle: “Che cosa dovrei fare”, si chiede sardonico, “cominciare improvvisamente a scrivere canzoni su argomenti carini, invece che su come strappare lacrime di trionfo da luoghi popolati di urla?”.
Così, con il primogenito Roman sulle ginocchia, Darnielle ha messo mano ai brani di “Transcendental Youth” già durante il tour del precedente
“All Eternals Deck”, per poi affidarli alle cure di Brandon Eggleston in sede di produzione. Il contributo più decisivo, però, viene da Matthew E. White, giovane epigono di Randy Newman che con i suoi arrangiamenti di fiati conferisce al disco un’inconfondibile personalità, dall’esplosione trionfale del singolo “Cry For Judas” ai riflessi placidi che si diffondono su “White Cedar” e “In Memory Of Satan”.
A guadagnare in spessore sono soprattutto le ballate pianistiche, vittima in passato di qualche monocromia di troppo: stavolta, invece, vanno ad assumere contorni levigati e ammiccanti (vedi il raddoppio sintetico della voce in “Until I Am Whole”), che si avvicinano più al cantautorato di un
Joseph Arthur che non alle scabre registrazioni dei Mountain Goats di un tempo. Ma non c’è di che essere nostalgici, di fronte a un disco deciso a rinnovare anche le formule apparentemente più consolidate in oltre vent’anni di carriera.
È il legame con un luogo, come capita spesso nel canzoniere dei Mountain Goats, a rimettere in contatto con il passato. Un luogo popolato di fantasmi, che costringe a specchiarsi nel riflesso di sé stessi. E se in “Lakeside View Apartments Suite” il riaprirsi di vecchie ferite assume una declinazione avvolgente, il sapore crudo delle immagini non concede nulla al romanticismo.
Lo scenario è quello grigio della costa settentrionale del Pacifico, da qualche parte tra Portland e Washington, dove Darnielle ha trascorso alcuni degli anni più solitari della sua vita. Proprio come lui, i personaggi dell’album hanno lo sguardo di chi si è gettato sino all’orlo del precipizio, e ora si trova a contemplare il vuoto.
Non c’è da sorprendersi, allora, che la Amy cui è dedicato il brano iniziale dell’album sia nientemeno che
Amy Winehouse: “Transcendental Youth” ha a che vedere proprio con la sete di afferrare la vita, e con il modo in cui quella sete può arrivare a consumare ogni cosa. Un tema molto vicino a quello già toccato da Darnielle in “All Hail West Texas” (l’ultimo album dell’era
lo-fi dei Mountain Goats), tanto che tra i versi di “Night Light” si affaccia nuovamente uno dei personaggi chiave di quell’album, la Jenny che nella canzone omonima sognava l’orizzonte di una strada aperta e un motore pronto per divorarla.
Ma è come se la vita non riuscisse a reggere lo slancio di quella corsa. E una promessa non mantenuta è il peggiore degli inganni. Sulla ritmica incalzante di “Harlem Roulette”, Darnielle lo testimonia attraverso la parabola di Frankie Lymon, l’
enfant prodige della musica
black anni Cinquanta, morto per overdose proprio mentre stava cercando di ricatturare la magia di un successo svanito troppo presto: “The loneliest people in the whole wide world are the ones you’re never going to see again”.
Rinchiusi nella prigione di sé stessi, nel buio di una stanza da cui sembra impossibile uscire: tra la solitudine claustrofobica di “In Memory Of Satan” e il senso di paranoia di “Counterfeit Florida Plates”, la leggerezza degli arrangiamenti sembra voler esorcizzare un’alienazione sempre più profonda. Gli stridori minacciosi di “Night Light” rendono palpabile l’inquietudine. Poi, però, ci pensa l’esuberanza del pianoforte di “The Diaz Brothers” a sublimare tutto in uno spavaldo inno alla
Ben Folds, dedicato a una coppia di fratelli nominati solo di sfuggita in “Scarface”: “Sono ossessionato dalle persone di cui veniamo a sapere senza avere la possibilità di conoscerle”, spiega Darnielle. “Sono come personaggi prefissati in una storia che tutti conosciamo. E in fondo, nella vita, siamo tutti personaggi fissi, se ci pensiamo”.
Il segreto è non arrendersi mai, ammonisce “Spent Gladiator 2” con un affastellarsi di metafore degno dei tempi di “Tallahassee”. Il segreto è imparare a cantare anche quando ci si ritrova immersi in un’oscurità senza nome, volteggiando sull’aria da vecchio swing della
title track. Anime affamate protese verso le stelle, come suggerisce l’immaginifica copertina dipinta da Aeron Alfrey, anime pronte a sfidare senza paura il ghigno dei propri demoni. Con un’unica, incrollabile certezza: “I will be made a new creature, one bright day”.
La voce è un sussurro, tra le pieghe di “White Cedar”, eppure nulla riesce a schiacciare quella sua semplice speranza. “You can’t tell me what my spirit tells me isn’t true, can you?”. Nessun altro può tracciare la strada al nostro posto: tocca a noi compiere fino in fondo il percorso, tocca a noi seguire quel confuso spunto di verità che un giorno ha messo in movimento il nostro cuore, fino al termine della notte.
02/10/2012