Il riflesso di un televisore acceso diffonde il suo chiarore metallico nell’oscurità. Lo schermo e la realtà si confondono fino a divenire quasi indistinguibili: una finzione in cui quello che scorre non è mai vero sangue, e quella che appare non è mai vera felicità.
Non ci sono più parabole dal sapore gotico, nel quarto disco degli Okkervil River, ma illusioni consumate tra i canali televisivi di una camera d’albergo e il parapetto di un ponte sulle acque del fiume. Non ci sono più oscurità folk-wave, nella musica di Will Sheff e soci, ma un palcoscenico dalle tinte brillanti su cui la band americana si avventura con piglio deciso.
Facile ritrovarsi imprigionati nei confini di uno stereotipo, dopo un disco dello spessore di “Black Sheep Boy”: soprattutto quando si ha una voce dall’impronta inconfondibile come quella di Sheff. “The Stage Names”, invece, sceglie di intraprendere una nuova rotta, compensando la profondità ombrosa del precedente album con un’inedita dose di leggerezza e ironia. “Sentirei di avere fallito a qualche livello se la nostra musica non fosse del buon rock ‘n’ roll”, afferma senza esitazione Sheff. E a sentire gli scattanti riff loureediani di “Unless It’s Kicks”, si direbbe che l’obiettivo sia stato centrato in pieno.
Non è solo la presenza ormai familiare di Brian Beattie alla consolle, a conferire agli Okkervil River la confidenza e la sicurezza sfoggiate in “The Stage Names”: è l’affiatamento di una formazione resa sempre più compatta dall’esperienza maturata sul palco, dove sono cresciuti in più di un caso i brani del nuovo disco.
La voce infuocata di Will Sheff domina la scena tra chitarre vivaci, nitidi accordi di pianoforte e robusti accenti di batteria, mentre orchestrazioni e tastiere rimangono per una volta sullo sfondo. Gli Okkervil River inseguono scintille pop finora solo accennate nei momenti più esuberanti del passato, da “The Latest Toughs” a “No Key, No Plan”: persino la copertina di William Schaff si veste una volta tanto di colori sgargianti. Il luccichio dei fiati conferisce così a “A Hand To Take Hold Of The Scene” un brioso andamento alla Decemberists, mentre “You Can’t Hold The Hand Of A Rock And Roll Man” corre lieve sulla polvere di stelle di Ziggy l’alieno, tra armonie vocali e battimani dalle ascendenze Sixties.
“Serious fun”, lo definisce Sheff: come dire che per fare rock ‘n’ roll non c’è bisogno di sottomettere per forza la testa alla pancia. E per dimostrarlo subito, in “Plus Ones” Sheff si diverte a giocare con la vanità di scrivere canzoni, immaginando il destino dei numeri successivi alle cifre celebri del rock, dall’ottavo dei 7 fratelli cinesi dei Rem al cinquantunesimo dei 50 modi per lasciare un amante di Paul Simon. Ma nei versi di Sheff, come sempre, i livelli di lettura si sovrappongono gli uni agli altri in un labirinto di specchi.
Anche gli episodi più vicini alle atmosfere di “Black Sheep Boy”, come “A Girl In Port”, si vestono nel nuovo album di fragranze di stampo Wilco, che rendono più vivide le sfumature di ogni sospiro. Quando poi si fa strada la disarmante dolcezza del carillon di “Savannah Smiles”, sospesa tra le pagine del diario di una figlia che scopri all’improvviso di non conoscere, sembra per un istante di ritrovarsi avvolti tra le pieghe più morbide di “The River”.
Amanti di una notte avvinghiati alla propria solitudine, mediocri rocker all’inseguimento perenne di un sogno, attrici perdute a cui non rimane altro che il nome di una stella del porno: quelli di “The Stage Names” sono personaggi in fuga dalla realtà, nascosti dietro la propria maschera per paura di lasciarsi ferire da un imprevisto. “What gives this mess some grace unless it’s fiction?”, è la domanda che pulsa al centro di “Unless It’s Kicks”. Ma la vita non si lascia inquadrare in una sceneggiatura: “It’s just a life story, so there’s no climax”, proclama Sheff in “Our Life Is Not A Movie Or Maybe”, che introduce l’album con una vigorosa enfasi degna degli Arcade Fire di “Neon Bible”.
I nomi di scena svaniscono nel nulla al passo solenne di “Title Track” (e casomai qualcuno avesse ancora qualche dubbio, un titolo del genere dovrebbe bastare a convincerlo della vena autoironica di Sheff…). Al momento della resa dei conti, resta un unico volto dietro le maschere.
Deve averlo saputo anche il poeta americano John Berryman, cui si ispira l’epilogo dell’album, quando ha fissato le acque del Mississippi prima di gettarsi nel vuoto: di tutti i suoi personaggi, di tutti i suoi alter ego, in quel momento era soltanto uno lo sguardo rimasto a fronteggiare la morte. E mentre la visione del suo suicidio scorre come un’immagine al rallentatore, nell’elegia acustica in crescendo di “John Allyn Smith Sails” irrompe all’improvviso la melodia di “Sloop John B”, non con il sorriso solare donatole da Brian Wilson, ma con quell’ultimo senso di abbandono ereditato dalla tradizione folk. “I’m full in my heart and my head and I want to go home”. Sì, ritornare a casa: è il grido del naufrago che protende la mano verso il cielo. Da qualche parte una casa deve pur esistere, là lungo il corso del fiume Okkervil.
24/07/2007