Si parlava qualche giorno fa, da queste parti, dello pseudo-revival nineties (si dica idm giusto per capirsi) in occasione del debutto, in scia a Basic Channel da un lato e Autechre dall'altro, di Lake People. Ci si torna oggi, non sazi di un 2014 che ha ribadito quanto ingente sia l'eredità di quei suoni sulla contemporaneità elettronica, a colpi dei vari Mark E, Call Super, Recondite, Kalipo e Roman Flügel (giusto per non citare il solito giro Bedroom Community e dintorni). Ci si torna per Rone, uno di coloro, suo malgrado, che quel revival l'hanno silenziosamente costruito (si legga: che la relazione mai decaduta tra quei suoni e la contemporaneità l'hanno tenuta ben salda da sempre). Uno che alla musica ci è arrivato quasi per caso e prima faceva il regista, e che ha ottenuto consensi sparsi forse frutto di una febbre eccessiva.
Quest'ultima trova oggi, con “Creatures”, la sua giustificazione a posteriori. Asciugato il gusto caramelloso e dolce del precedente “Tohu Bohu” e ripescata la convinzione muscolare del primo “Spanish Breakfast”, Rone sforna un lavoro finalmente maturo e consapevole. Un disco che nasce “classico”, che ha forse poca voglia di osare, ma che riesce a distinguersi per una capacità tutta sua di integrare elementi sparsi e farli convivere in uno stesso universo sonoro. Una sorta di frullatore, in cui finiscono le tendenze post-dubstep da Burial in poi – già nascoste un po' ovunque dietro le colate melodiche del soundworld del francese – il ponte coi Novanta sul lato ante-minimal (cfr. Hopkins), il melodismo techno tutto berlinese, quello sintetico (che parla, fra le altre lingue, il francese di Jarre) e l'eredità sci-fi a poco più di 8 bit che il compagno di label Arandel ha consacrato in maniera definitiva.
Il tutto accomunato e amalgamato da un tocco squisitamente pop che è e resta il marchio di fabbrica (lo fu già sulla sponda house una quindicina abbondante d'anni fa) del made in France, e che rende un pezzo come “Calice Texas”, sorretto anche dalla performance vocale di Bachar Mar-Khalité, una splendida e malinconica pop song prima ancora che un pezzo esteticamente azzeccatissimo.
Su un versante totalmente opposto, la trancedelia di “Sing Song” fa però lo stesso effetto, inchinandosi alla synth-music che fu (come in tantissimi, seppur nascondendolo, sono soliti fare oggi) e premendo contemporaneamente su un acceleratore in tempi dispari. La cura per la forma raggiunge livelli maniacali e a dimostrarlo vi sono la progressione acquatica di “Memory”, il caleidoscopio hi-tech di “Quitter La Ville” e il viaggio iperspaziale di “Acid Reflux”, un omaggio palese già a partire dal titolo. Non manca nemmeno qualche episodio sopra le righe, come l'alienante decostruzione supersaw di “Ouija”.
L'approccio spontaneo e decisamente lontano da ogni logica di ricerca specifica è anche qui tratto distintivo della musica di Rone, al tempo stesso limite principale e pregio maggiore. Basti prendere due casi-emblema, come la morbida elettro-fusion di “Elle” (con Byrce Dessner ospite alla chitarra) e la chiusura (video)giocata con delicatezza di “Vir”: due pezzi intrisi come di un'attitudine a un passo dal naif, ma che proprio in questa loro semplicità nascondono il segreto della loro forza espressiva.
Ci sono poi, a completare la scacchiera, i due numeri da capogiro, i due colpi da fuoriclasse: l'ouverture magica e avvolgente di “(00)”, come portare il miglior Kuedo a corte della Warp che fu, e la soft-ballad strappata alla migliore Imogen Heap (ma qui alla voce c'è Charlotte Oleena”) di “Sir Orfeo”. Ciliegine sulla torta di un album che consacra finalmente il talento, squisitamente spontaneo e passionale, del suo autore.
13/02/2015