Con il travolgente e rumoroso ritorno in pista di Aphex Twin, l'anno scorso, la strada che conduce dagli anni Novanta elettronici all'oggi si è definitivamente ripopolata. La verità, a dirla tutta, è che dopo il fermento minimal di inizio millennio, nel campo della techno più estranea al dancefloor, il traffico non ha mai cessato di correre da quelle parti. Ma alla luce degli ultimi cinque anni si può affermare, con una discreta sicurezza, che quella direttrice è ancora (e soprattutto) oggi, quanto e più del fermento urban (che dopo aver avuto “il suo Aphex Twin” in Burial pare essersi lentamente arrotolato su sé stesso, eccezioni che confermano la regola a parte), la principale espressione dell'elettronica contemporanea.
Si finga di non sapere che Lake People è l'ultimo moniker, in ordine di tempo, del tedesco Martin Enke alias Trickform, uno dei tanti talenti che hanno commesso l'errore di cavalcare il carrozzone post-Basic Channel nel quinquennio minimal già citato, rimanendovi “intrappolati”. Quello che si troverà, in “Purposely Uncertain Field”, è un concentrato di quello che l'elettronica è oggi: idm morbida e liquida (Black Dog), correnti dub dal fluire costante (Moritz Von Oswald), quel gusto per la contaminazione melodica che ha glorificato alle masse hipster l'elettronica colta (Jon Hopkins). Il tutto forgiato e lavorato con l'abilità di un artigiano cui è mancata, forse, solo la fortuna.
Così, l'emblematico incipit di “Escape Velocity” sembra strappato a un “Tranklements” o a un “Borderland”, figlio di un modernariato stilistico che rappresenta la sostanza base della contemporaneità. Sui medesimi binari a velocità più sostenuta viaggia anche “Blackpoint”, contrappuntata qua e là da archi sintetici, e “Illuminated”, cavalcata à-la-Orbital avvinghiata a ghirigori acidi mai abbastanza concentrati per poter corrodere. Proprio qui sta la novità, l'evoluzione del contemporaneo: nella “ripulitura” da ogni imperfezione, da ogni eccesso, nel calcolo che non è più la novità ma il metodo assodato.
Altrove, i richiami alla fiorente stagione dell'intellighenzia si fanno sentire con più vigore. È il caso del mantra iperspaziale di “Glease 29”, della malinconia e della sensibilità ambientale tutta jamesiana su “Distance”, del brio melodico tanto caro a Mike Paradinas inscenato in “Lamb Shift” e dei mélange analogici in stile primi Autechre simulati su “Bora” e “Orb”. Passato e presente che si mischiano, si confondono, si identificano. Retromania che non è più tale, come dimostrato dagli attualissimi manifesti di “Drifting Red” e “Cooping”, ovvero quel che Nathan Fake e James Holden metterebbero se venissero chiamati a suonare in un lounge bar.
L'exploit tardivo di un producer che ha stoffa da vendere da almeno dieci anni. Ad ulteriore dimostrazione di come in questi primi decenni dei Duemila, legati ancora così a fondo all'ingente eredità nineties, lo spazio lo possa trovare anche chi all'epoca sarebbe stato dato per spacciato.
09/02/2015