Entrambi comparirono come co-autori in “Small Craft On A Milk Sea”, il gioiello che segnò l'approdo del genio inglese alla Warp Records, e in precedenza Hopkins assistette il “padrino” pure nella produzione di “Viva La Vida Or Death And All His Friend” dei Coldplay. A ciò si aggiunga pure l'esperienza concessagli da King Creosote, che due anni fa lo chiamò a rielaborare parte del suo repertorio storico aprendogli le porte pure del folk.
Parlare di Hopkins come di un eterno raccomandato sarebbe però probabilmente ingiusto. Constatato il cospicuo valore di “Opalescent” e i ben pochi difetti da annettere al basso tasso di commerciabilità per quel che riguarda “Contact Note”, subito prima di mettere la firma sul ritorno di Eno, il londinese diede alle stampe quel cofanetto di tesori nascosti intitolato “Insides” che a tutt'oggi resta uno dei dischi più sottovalutati del 2009 elettronico. Un lavoro cui risulta impossibile non paragonare oggi questo “Immunity”, che segna il suo ritorno quattro anni dopo.
La prima distinzione da fare è puramente stilistica: se “Insides” era un disco solare e gioioso, figlio evidente dell'eredità Coldplay-iana, il nuovo lavoro è un brulicante assedio al mondo della notte, che viaggia fra gallerie e neon difettosi con la velocità di un meteorite in collisione, incastrando ritmi contorti e melodie pirotecniche. Hopkins goes techno, insomma, ma una techno plumbea, elegante, soffusa e claustrofobica, che spinge su quei bassi vibranti di cui la Gran Bretagna è madrepatria storica con un'attitudine che non si fatica ad associare all'estetica intelligent.
Per rendersi conto del particolarissimo soundscape che pervade l'album basta partire dal mantra spettrale di “Open Eye Signal”, un tappeto tech-trip che sfreccia a velocità costante in otto minuti di pura ipnosi con la perfezione architettonica di un James Holden. Già messa a dura prova, la barriera tra passato e presente Hopkins-iano è distrutta a graffi e pietre in quella “We Disappear” che apre le danze, approdando sulla linea di confine tra l'abstract degli Emptyset e la neo-idm di Nathan Fake. L'accelerazione aliena di “Breathe This Air” nello stile dell'ultimo Richard Barbieri solista prepara il territorio per i nove micidiali minuti di “Collider”, un serpentone martellante in slow-motion ricoperto di sample e richiami ambientali che trasporta dall'ipnosi veglia al sogno concludendo la prima metà dell'album.
La seconda, decisamente più rilassata e vicina al passato, vede in “Abandon Window” e nella conclusiva title track due possibili omaggi: il primo, fra pianoforte e tappeti dronici, all'ambient music già sperimentata in “Contact Note”; il secondo - sogno lucido ambientato in Islanda e guidato nuovamente dalla voce di King Creosote - a “Insides” e alla sua dolcezza melodica.
La fredda chill-out di “Sun Armonics” è forse l'unico episodio un po' sotto tono della scaletta, mentre la languida cavalcata di “Form By Fireflight” torna a giocare con scanalature in tempi dispari e distese sintetiche, tracciando una linea che pare collegare Autechre e Burial.
“Immunity” è il primo disco totalmente autonomo di Jon Hopkins, quello che finalmente potrà essere attribuito solo ed esclusivamente a lui e al suo (ora evidente) talento. Facendo tesoro delle lezioni apprese durante le varie (e fortunose) esperienze della sua carriera, l'inglese dà vita in questa scultura tecnologico-sonora alla sua opera più matura, compatta e completa, nonché senza dubbio alla più riuscita della sua carriera. Questa volta, senza raccomandazione alcuna.
(20/06/2013)