Sheffield, 1989
Prime luci dell'alba di un giorno qualsiasi. Si rientra a casa dopo l'ennesima nottata nella calca di un capannone industriale, le orecchie che quasi non ci sentono più. Non c'è “Sunday Morning” a riecheggiare nella testa, non c'è eroina che scorre in vena. A rimbombare è quel che resta di frustate squadrate, squilli metallici, convulsioni ritmiche, acidi liquidi in sfumata dissolvenza. L'ultimo dj ha appena finito di ricoprire di effetti qualche 12'' di Bobby Konders, di amalgamare le grandinate di Krust e Ice Minus, concedendo magari giusto un passaggio a Channel X prima di devastare ulteriormente con qualche produzione a nome Spiral Tribe. Hardcore è la parola chiave che dalla Germania ha raggiunto e conquistato la Manica, rave party il diktat spaziale. Poi di termini ne girano fin troppi: gabber, darkcore, darkstep, neurofunk, e fuori Londra jungle, drum'n'bass e acid, quest'ultima importata dagli Stati Uniti ma presto divenuta trademark britannico. Ma non sono che attributi di una cultura pronta a divenire imperante, a oltrepassare la Manica e a diffondersi a macchia d'olio sul territorio Europeo, fino a perdurare, seppur in forma minore, tutt'oggi. Nei Novanta, rave è e sarà sinonimo quasi unico di elettronica underground.
Sheffield, 1989. Qualcuno già guarda avanti. In quel brulicare di suoni, ritmi furenti e sballo, ha intravisto uno spiraglio in grado di condurre altrove, verso territori inesplorati. Uno spiraglio a cui si può arrivare da più strade: partendo dall'acid-house più pura, dall'hardcore “classica”, passando direttamente all'isolare e lavorare su singole caratteristiche delle stesse. Il tutto con la chiara intenzione di esplorare mondi nuovi, di trasportare le intuizioni più particolari in precedenza prestate allo sballo in un contesto inedito e sperimentale, futuristico ma al tempo stesso debitore di chi in passato quei suoni ha contribuito a crearli. Il battesimo ufficiale arriverà nel 1992, con il primo capitolo della serie “Artificial Intelligence” della seminale Warp Records, ma la cosiddetta intelligent dance music ha già cominciato a muovere i suoi primi passi.
Sheffield, 1989. Manca ancora qualche anno all'esplosione delle folgoranti contaminazioni ambientali dei Boards Of Canada, dei liquidi intrugli techno-atmosferici degli Autechre, dei vari universi firmati Aphex Twin, quando tre giovani producer decidono di gettarsi in quello spiraglio luminoso che va oltre l'elettronica comune, prendendo però un'altra strada ancora: quella della techno. I loro nomi sono Ken Downie, Ed Handley e Andy Turner. La storia li conoscerà nella loro unione artistica come Black Dog, fino a quando le loro strade non si separeranno con gli ultimi due pronti a formare un altro act fondamentale, i Plaid.
Atto I: The Black Dog, before Idm
Quando i rave e la techno si abbracciarono
Poco è dato a sapersi su come Ken Downie, Ed Handley e Andy Turner arrivarono a formare l'act che prima di tutti plasmò gli albori di quella che sarebbe stata l'intelligent dance music. La loro è una storia sostanzialmente priva di aneddoti, dal profilo basso e dimesso, una sorta di servitù alla musica a discapito di tutto ciò che ne sta fuori. Di sicuro, i tre producer erano attivi in solitaria ben prima della fondazione del loro progetto congiunto, come dimostrato da una manciata di brani pubblicati su sampler e bootleg sotto vari pseudonimi, alcuni dei quali sarebbero poi stati raccolti dalla Warp nel loro primo grande testamento, il capolavoro Bytes.
Sebbene i loro primi passi avvengano, come intuibile, nel mondo dei rave, ben presto l'interesse dei tre musicisti inizia a vertere maggiormente dalle parti di Berlino, dove nel frattempo la techno, già passata negli States attraverso il filtro minimal ad opera Underground Resistance, sta iniziando a diffondersi in maniera capillare negli ambienti più underground (l'esplosione a firma Basic Channel è dietro l'angolo). Così, Downie, Handley e Turner iniziano ad allontanarsi progressivamente dalla cultura core e a lavorare e sperimentare con un linguaggio del tutto inedito, di matrice prettamente techno, ma non estraneo a contaminazioni provenienti dal loro passato di ascolti, dalle frenesie jungle al melodismo robotico krauto.
Nel giro di pochi mesi, i tre mettono da parte una manciata di brani destinati a divenire autentici cult negli anni successivi. Ma siamo nel 1989 e il processo di sdoganamento della techno è ancora in fase embrionale: pertanto, risulta faticosissimo trovare un'etichetta disposta a pubblicare del materiale così lontano e radicalmente diverso dal trend che sta dominando la scena. Dopo una ricerca vana e piuttosto breve, la scelta obbligata ricade quindi sul do-it-yourself: è in questa forma che escono i primi tre extended play a nome Black Dog, oggi di fatto introvabili e ambitissimi dai collezionisti del genere. Il primo di essi, Virtual, è un'autentica bomba a mano nascosta, forte di due brani potenzialmente seminali: la title track, una magistrale cavalcata techno che sembra fuoriuscire dalla Berlino che sarà, e soprattutto “The Weight”, dimesso acquerello minimal-ambientale che di fatto anticipa i linguaggi di “Selected Ambient Works 85-92” tanto quanto quelli del Plastikman di “Consumed”.
Seguono a ruota il meno interessante Age Of Slack e, nel 1990, Techno Playtime, che cerca di tirare le fila di questi primi albori sonori modellando ulteriormente le coordinate sonore. Nella tracklist di quest'ultimo spiccano “Chiba”, ovvero un gelido abbraccio tra techno e suoni acidi, e “I Feel Like It”, prototipo intelligent il cui ritmo jungle è solcato da tiepide distese analogiche.
Passati quasi del tutto inosservati, questi tre parti sono di fatto le primissime testimonianze di quella che nel giro di due dozzine di mesi diverrà una delle correnti più importanti della storia della musica elettronica. L'anno è il 1990 e nessuno dei futuri protagonisti della stagione Idm si è ancora affacciato al mercato discografico: la rivoluzione è ancora in preparazione, con gli Autechre intenti ad astrarre il proprio suono verso una dimensione ad oggi incontaminata e Aphex Twin impegnato a seguire passo per passo le lezioni di Mike Dred. Sempre più artisti, però, iniziano a percorrere le vie che portano alla luce oltre il rave, a rimescolare le carte del drum'n'bass e dei suoni acidi con l'universo organico-ambientale. In questo contesto di nascente entusiasmo, una neonata etichetta si fa avanti offrendo ai Black Dog il loro primo contratto: si tratta della General Production Recordings (GPR), che oltre a tre Ep del trio, licenzierà in quegli stessi anni le produzioni di nomi come Shiva, Terrace, 7th Plain e Mark Broom, divenendo una sorta di centro di convergenza per la scena techno post-rave britannica.
L'avventura del trio può quindi ufficialmente avere inizio.
Dalla techno del futuro alla dance intelligente
I primi Novanta sono anni esplosivi per il panorama techno europeo. La cultura rave – destinata a un futuro tutto fuorché breve – inizia a essere considerata da taluni come un autentico limite alle possibilità artistiche della musica elettronica: la costrizione, di fatto, a produrre musica votata al solo intrattenimento di folle incontenibili inizia a divenire un ostacolo per coloro che, sempre più in massa, desiderano solcare nuove strade. Da oltreoceano continuano ad arrivare lezioni impossibili da ignorare: quelle della già citata Underground Resistance, di Derrick May e del suo “The Beginnings”, di un Richie Hawtin in erba con la sua Plus8. Per assurdo, in un periodo incredibilmente fiorente per il panorama techno americano, l'onda d'entusiasmo che aveva contagiato l'underground statunitense agli albori del genere pare essersi spenta: è invece in Europa, e soprattutto a Berlino, che quei suoni continuano a generare un interesse crescente nel popolo delle notti, tanto da portare molti producer a trasferirsi fisicamente nella capitale tedesca. Le frenesie del mondo rave stanno di fatto generando una vera e propria opposizione, tradotta nella gestazione dell'estetica minimal, che resterà tratto somatico fondamentale per tutta la techno europea a venire. La “febbre” technoide inizia a contagiare anche altre nazioni, fra cui il Belgio - dove sorge la R&S Records, un'etichetta destinata a divenire seminale per il genere e che pubblicherà, fra gli altri, i primi capolavori di Aphex Twin – e la Gran Bretagna, pronta a divenire il cuore nevralgico della scena intelligent.
L'alba di una nuova stagione è ormai imminente, e Downie, Handley e Turner ne sono sempre più consapevoli. Corre l'anno 1991, e pochi mesi prima che Richard David James fondi la Rephlex Records, dando così il via ufficiale all'ondata della dance intelligente, i Black Dog tornano alla carica con un nuovo Ep, il primo per la GPR.
Parallel è un manifesto purissimo e cristallino di techno futurista e di quello che diverrà lo stile caratteristico del trio. Il lato berlinese della futura Idm, potremmo definirlo, come testimoniato dalle distese caustiche di “Squelch” e della title track, primi grandi esempi della raffinatezza melodica delle loro produzioni, dote nella quale il solo µ-Ziq sarà in grado di eguagliarli. Che i tre non siano estranei alle complesse costruzioni ritmiche di eredità d'n'b è evidente soprattutto in “Erb”, che al tempo stesso indica al meglio la strada che seguiranno durante tutta la loro avventura: quella della morbidezza e della classe cristallina. Anche quando la stagione Idm arriverà a raggiungere una definizione sonora più precisa, nella quale una claustrofobia controllata giocherà spesso il ruolo di protagonista indiscussa, Ken, Ed e Andy si manterranno saldamente su una strada più sfumata e delicata, a diretto contatto con la tradizione techno da Detroit a Berlino e con le effusioni ambientali con cui la “Primavera intelligente” emergerà dall'underground.
Pochi mesi più tardi, Ed Handley e Andy Turner decidono di portare alla luce del materiale al quale avevano lavorato insieme prima dell'inizio della loro avventura, sul quale Ken Downie era stato chiamato solo in veste di produttore e assistente. Nessuna fonte rivela se effettivamente possa essere stata quella l'occasione del loro primo incontro, come però sarebbe lecito dedurre. Autoprodotto in sordina, Mbuki Mvuki è un'altra uscita oggi ambitissima dai collezionisti, e cronologicamente il primo long playing della storia dei tre. Ma il disco esce all'insaputa quasi totale dei contemporanei sotto un altro moniker, che ben pochi si aspettano di ritrovare anni più tardi a celare un nuovo progetto dei due musicisti: Plaid.
Musicalmente, l'album è collocabile in toto – come lo sarà l'avventura del futuro duo – nel cerchio di un Idm brillante e melodica, decisamente più distante dal mondo della techno rispetto al sound dei Black Dog e ben più vicino all'universo sonoro di Autechre e, soprattutto, µ-Ziq. Il tutto, a conti fatti, con qualcosa come due anni d'anticipo sull'esplosione di quei suoni, e all'insegna di una qualità sopraffina. Il motorik scintillante di “Link”, il primo capolavoro, è già un programma di quello che sarà il Plaid-sound, lanciato su sentieri iperspaziali con movenze incredibilmente umane, condivise con i pattern obliqui e sfrigolanti di “Anything” e con i laser sublunari di “Yak”.
Si tratta di una musica vivace, giocosa e dal piglio futuristico, impossibile da ballare ma non così fuori luogo su un ipotetico dancefloor del quarto millennio. E, soprattutto, ancor oggi incredibilmente attuale.
Nel 1992 vedono la luce, tutti su GPR, un Ep di accompagnamento a Mbuki Mbuki, Scoobs In Columbia, decisamente più orientato a omaggiare le forme classiche della club music americana – e altri due 12'' a firma Black Dog, Vir²l e Vanttool. Quest'ultimo, registrato presso gli studi della R&S, è il trampolino di lancio definitivo per il terzetto, che conia la sua formula finale: i soffici intrugli della title track plasmano i confini di una techno classificabile come intelligent ma che non rinuncia alla sua caratura ballabile e decisamente meno ostica rispetto a quanto proposto dagli altri protagonisti della scena di Sheffield. “Hub”, dal canto suo, mira a quelle stratificazioni liquide che giungeranno al culmine del loro splendore nel capolavoro “Incunabula” degli Autechre, e “Rainbow Bridge” torna a giocare con intrecci ritmici in tempi dispari, sempre però all'insegna di una grazia ineffabile.
Si tratta del passo definitivo, dello step ultimo verso una consacrazione che arriverà esattamente un anno più tardi. Una consacrazione tardiva, che non renderà appieno il merito cronologico del trio che per primo può dire di aver elaborato l'embrione dell'Idm.
L'approdo a casa Warp e la consacrazione
9 luglio 1992: l'Intelligent dance music vede ufficialmente la luce. L'evento inaugurale è l'uscita della compilation “Artificial Intelligence” a cura della Warp Records, l'etichetta che da quel momento diverrà il nodo cardine dell'intera scena. L'elenco dei nomi che partecipa alla tracklist, in gran parte celati sotto pseudonimi monouso, è l'ideale lista dei padri fondatori del genere e dei loro seguaci: Aphex Twin (a nome The Dice Man), Autechre, B12, Speedy J, Alex Paterson e Richie Hawtin (UP!). A completare la scaletta vi è un brano, “The Clan”, a nome I.A.O.: l'autore è Ken Downie. Trattasi di un carillon dal ritmo scandito e macchinale, solcato da increspature analogiche e avvolto in veli celestiali: i Black Dog sono approdati a casa Warp, e dunque entrati di diritto in quel macrouniverso che avevano di fatto abbozzato per primi. Se la partecipazione alla compilation è il primo passo dei tre verso la consacrazione, il responsabile definitivo della stessa è l'album con cui essi debuttano sulla lunga distanza, nonché terzo episodio della serie stessa: Bytes, un lavoro fondamentale per la storia del trio tanto quanto per quella della musica elettronica.
Un caleidoscopio di ritmi spezzati, flussi sbarrati, danze astrali e bagliori luminosi, dove passato e presente della techno si incontrano e convergono, a tratti amalgamandosi ad altri rinnegandosi vicendevolmente. È il manifesto, il trattato estetico e artistico di tutto ciò che i Black Dog hanno rappresentato, rappresentano e rappresenteranno: a dimostrazione di ciò, Bytes viene pubblicato a nome Black Dog Productions e assume una forma non dissimile da quella della compilation, quasi a voler offrire una panoramica completa di tutte le sfaccettature dell'attività dei tre musicisti e non solo della loro unione artistica. Una sorta di “Ummagumma”, insomma, firmato con più pseudonimi e frutto di incroci combinati ed escursioni solitarie in fase di composizione.
Fra i moniker, ecco rispuntare Plaid: Handley e Turner firmano qui l'opprimente ouverture di “Object Oriented”, serpentone dal retrogusto industriale memore dei trascorsi hardcore, e la passeggiata nell'ultramondo a raggi laser e bassi imperanti di “Yamemm”; due brani a onor del vero ben distanti da quanto mostrato in Mbuki Mvuki e da quanto i due proporranno successivamente. Ancor più esplosivo è il castello scoppiettante di “Caz”, progettato e costruito da Handley a nome Close Up Over, che con il medesimo alias si diletta pure in una marcetta squadrata dal gusto berlinese come “Olivine” e nel potenziale omaggio agli Autechre di “Jauqq”, prima di celarsi dietro l'alter-ego Balil per fondere acid e distese celestiali in “Merck” e calibrare dolci spruzzi melodici in “3/4 Heart”. Decisamente più ridotto è il contributo di Turner, che come Atypic conia solo l'appiccicoso tappeto metallico di “Focus Mel”.
Qualche anno più tardi, quando proseguirà la saga Black Dog in solitaria, Ken Downie si rivelerà come l'anima del trio responsabile del forte attaccamento agli stilemi berlinesi: col senno di poi, l'escursione solitaria nella pura hardcore di “Fight The Hits” a nome Discordian Popes e la graffiante ambient acida di “Carceres Ex Novum” firmata Xeper non erano certo indizi in grado di condurre in tale direzione. A completare la scacchiera, una serie di intermezzi accreditati a tutti e tre dietro l'identità di Echo Mike, veri e propri spartiacque più incisivi simbolicamente che per il loro (non)-valore musicale.
Bytes è un autentico puzzle dove ogni tessera è collocata con meticolosità. È di fatto un disco dei Black Dog in tutto e per tutto, il primo sulla lunga durata del trio, ma al tempo stesso è frutto di fatto degli sforzi dei singoli membri piuttosto che di una vera e propria dinamica di gruppo. Ed è proprio questa dualità di fondo apparentemente impossibile – che rappresenta di fatto l'equilibrio precario alla base del loro percorso artistico congiunto – a rendere ancor più sorprendenti le tante innovazioni raccolte e messe in ordine nel medesimo contenitore. Qui i suoni che faranno grandi le tre ondate dell'Idm convivono, in una forma finalmente matura e definitiva, con una larga parte delle loro origini, in un incontro nel presente tra passato e futuro. I primi Black Dog e la (loro, ma non solo) Idm si identificano, di fatto, in questo capolavoro.
Bytes è la consacrazione, il lancio definitivo di un marchio divenuto ora a tutti gli effetti tessera fondamentale di un'epoca nuova e lucente per la musica elettronica. Ma, imboccato il trampolino, i Black Dog non si fermano: seguendo la regola del “batter ferro”, attendono meno di un anno per ripresentarsi con un nuovo long playing, sfruttando l'ultima uscita conferitagli dal contratto con la GPR. Se il suo predecessore rappresentava di fatto un sensazionale macrofocus sull'universo sonoro di Ken Downie, Ed Handley e Andy Turner, Temple Of Transparent Bells è l'altra faccia della medaglia: un disco frutto della coesione delle tre menti e della loro interazione polilaterale. Non ci sono escursioni soliste o spartizioni combinate degli spazi, tutto pare decisamente più diretto e meno architettato. A essere riprese sono le evoluzioni sulla materia techno già proprie di Vanttool, interfacciate con un gusto decisamente più orientato alle soluzioni lanciate da LFO e dal suo “Frequencies”, l'altro grande portale d'accesso – assieme a Bytes – all'universo intelligent. Da quei lidi arrivano dunque le increspature taglienti di “The Actor And The Audience” e le costruzioni poliritmiche delle due “Cost”, mentre maggiormente orientate a memorie rave sono i graffi acidi di “Jupiler” e i tribalismi hardcore di “Cycle” . “4, 7, 8” torna a guardare alla Berlino analogica e giocare su ritmi più quadrati, assieme ai più rilassati sciami melodici di “Sharp Shooting On Saturn” e al finale da tramonto di “The Crete That Crete Made”.
A completare l'ossatura, alcuni episodi decisamente più bizzarri, come il funky da quarto mondo di “King Of Sparta” e le martellanti percussioni acustiche di “Mango”.
Pur non bissando l'inarrivabile exploit del capolavoro precedente, Temple Of Transparent Bells conferma i Black Dog sull'altare di una techno della quale risultano essere titolari unici, in grado di mantenere quei tratti somatici di continuità con il passato e di suonare affine al presente sperimentale, dote che molti dei contemporanei protagonisti della scena britannica tenderanno a perdere.
Affermatisi definitivamente come una delle punte di diamante dell'universo elettronico di inizio Novanta, Downie, Handley e Turner si ritirano per tutto il 1994, limitando al minimo indispensabile le apparizioni pubbliche e le esibizioni dal vivo. Per la prima volta nella loro carriera, i tre sono concentrati esclusivamente sulla realizzazione in studio, che porterà dodici mesi più tardi alla realizzazione del loro album più completo e personale, nonché ultimo capitolo di una saga tanto breve quanto storica.
Il secondo capolavoro e la separazione
Nel 1995 il panorama techno europeo è ormai preda di due correnti parallele: quella intelligent britannica, che vive la sua seconda fase distaccandosi dall'ambient verso un universo di calcolata e frenetica claustrofobia – transizione ben rappresentata da Aphex Twin nel suo “...I Care Because You Do” e dagli Autechre in “TriRepetae++”, ma anche da “In Pine Effects” di µ-Ziq e dai primissimi bozzetti di Squarepusher – e quella minimal con casa a Berlino, che grazie alle produzioni Basic Channel si sta dirigendo con forza verso effusioni dub.
Interessatissimi, come sempre, all'evoluzione dei suoni che li circondano, i Black Dog tentano di fatto una mediazione tra queste due forme all'insegna di quel sound esplicato in Bytes e confermato poi in Temple Of Transparent Bells. La ricerca, questa volta, gioca ancor più di prima un ruolo cruciale: e così Spanners, il secondo e ultimo capolavoro della loro carriera congiunta, è per la prima volta un disco compatto, studiato, organizzato e rifinito. Non più un puzzle composto da più tessere, né tantomeno un flusso multiforme legato senza soluzioni di scissione, bensì un disco costruito su una struttura volta a sfruttare ogni spazio nella maniera più indicata.
Non c'è un singolo suono che non sia scelto appositamente, collocato con uno scopo ben preciso: in questo senso, si tratta di un lavoro decisamente più votato all'intellighenzia rispetto al passato, benché sia il sound a mantenerlo all'interno del microcosmo Black Dog.
Come anticipato in precedenza, si tratta anche dell'ultimo disco del percorso congiunto di Downie, Handley e Turner: è il disco che rappresenta l'essenza ultima della loro collaborazione e, come tale, delle differenze di visione sonora che separano in quel periodo il primo dagli altri due, e che saranno alla base della successiva divisione di percorsi.
Spanners è dunque il Black Dog sound alla massima concentrazione: “Barbola Work” è l'eloquente apriporta, una danza marziale costruita su un 4/4 alieno e su quei tipici weird melodici che da Bytes in poi sono divenuti vero e proprio trademark, tanto quanto i tribalismi percussivi che si ripresentano fra arboree in “Chase The Manhattan” e squadrati e pungenti in “Frisbee Skip”. Emblematici riguardo le discrepanze interne sono invece alcuni episodi che si avvicinano come mai prima ai due poli che fungono da confini alle scorribande dei tre: il carillon melodico della conclusiva “Chesh”, l'oppressiva e metallica cavalcata di “Tahr” e il malsano notturno di “Pot Noddle” sono vere e proprie anticipazioni del sound prettamente Idm che Handley e Turner conieranno sotto il marchio Plaid. Per contro, l'omaggio a Moritz Von Oswald dell'iniziale “Raxmus”, l'astrale ambient-techno di “Nommo” e l'accelerazione battente di “End Of Time” sono i frutti di un Downie sempre più attratto dall'universo sonoro minimal e interessato a riavvicinare le sue sperimentazioni alle strutture di una techno più tradizionale e morbida.
A completare la tavolozza vi sono poi alcuni skit intitolati “Bolt” e numerati progressivamente, ai quali è affidato il compito di fungere da spartiacque fra quasi tutti i brani, un divertissement concreto a dire il vero di scarso valore (“Further Arm”) e quello che è probabilmente il capolavoro definitivo dei Black Dog: l'irrefrenabile e ipnotica cavalcata post-techno di “Psil Cosyin”, dieci minuti in cui è racchiusa l'essenza dell'album e di quel che il trio ha rappresentato nei suoi sei anni di attività.
Spanners è il disco definitivo, maturo e probabilmente più completo dei Black Dog, benché resti un gradino sotto a Bytes, in quanto privo di quella caratura innovativa che aveva contrassegnato il manifesto di due anni prima. Un capolavoro, in ogni caso, il vertice massimo raggiunto dalla musica dei tre, l'apice della loro formula e la sintesi ultima del loro sound.
Come ogni bomba pronta ad esplodere, però, il disco funge anche da sostanziale punto di non ritorno per la carriera congiunta dei tre. Dopo essersi sforzati al massimo, creativamente e umanamente, per confezionare un lavoro nato già negli intenti come il migliore della loro carriera, Downie, Handley e Turner decidono con non troppa sorpresa di separare le loro strade. Troppo ampie, come evidente pure dal sound dell'ultima prova, le differenze di intenti artistici: Ken è ormai sempre più affascinato dall'universo techno di cui per primo si era invaghito, e al quale era riuscito a mantenere compenetrato il sound dei Black Dog anche negli episodi più ostici e sperimentali. Ed e Andy, per contro, puntano a proseguire il percorso avviato con Mbuki Mvuki, gettandosi completamente nel mondo dell'Intelligent dance music, sviluppatasi nei primi cinque anni dei Novanta e divenuta vero e proprio genere con coordinate stilistiche ben precise (e decisamente più “estreme”). La convinzione che l'ibrido equilibrato fra i due poli che aveva costituito fino a quel momento la personalissima ossatura del Black Dog sound fosse ormai passibile di sviluppi significativi è la goccia che fa traboccare il vaso: il 1995 è così pure l'anno in cui l'avventura giunge al termine, pronta a dividersi fra due nuovi sentieri.
Libero finalmente di potersi muovere in autonomia, Ken Downie decide di portare avanti in solitaria il marchio Black Dog, che per un breve periodo di tempo diviene così il suo alter-ego. Il prodotto principale di questa fase di transizione è Music For Adverts (And Short Films), edito a nemmeno un anno di distanza da Spanners, che raccoglie una ventina di microframmenti ideati appunto nella forma della library music. Pregevole nella qualità, soffre però della più classica ed eccessiva frammentazione a cui questo genere di uscite è quasi sempre soggetto, e si salva solo grazie ad alcuni piatti più corposi in grado di indicare la strada verso quella techno astrale che andrà a costituire il suono dei Black Dog del nuovo millennio: la docile ma graffiante “Euthanasia” - vero e proprio cuore pulsante del disco – la spedita e squadrata “Minour” e il tappeto ambientale di “Kheprit”, conclusione che segna anche l'ultimo legame di Downie con i suoni più liquidi del cosmo Idm.
Seguirà, infine, una nostalgica "Peel Session" in cui egli re-incrocerà la sua strada con i due ex-compagni d'avventura, benché in due performance separate (Handley e Turner suoneranno per conto proprio a nome Plaid). Entrambe saranno pubblicate su Ep nel 1999: quella firmata Downie a nome Black Dog - dividendosi fra memorie puramente acide (“Psycosyin”), qualche sguardo più organico (“Shadehead”) e passaggi a venature dark (“Rue”) - farà calare il sipario sull'act che per primo ha inaugurato una delle stagioni più gloriose e innovative per la musica elettronica contemporanea.
Atto II: Plaid, into Idm
La transizione e il nuovo verbo "intelligent"
Che quell'elettronica votata all'intellighenzia dance ma forte di radici ben salde infossate nella tradizione techno iniziasse a divenire stretta per le intenzioni di Ed Handley e Andy Turner lo si era inteso già da un po'. Spanners ne era stata la conferma definitiva: il classico capolavoro che deve il suo status al raggiungimento di un apice, alla saturazione totale di una formula. Sarebbe stato impossibile per i Black Dog, così come per qualsiasi imitatore, confezionare un lavoro in grado di andar oltre, di proseguire una ricerca all'interno di quel microcosmo sul quale il trio era riuscito a mantenere una supremazia totale, grazie alla capacità unica di equilibrarsi fra due poli di egual attrazione magnetica. Nella storia della musica elettronica, i Black Dog sono oggi riconosciuti come punto di partenza e parte integrante della scena intelligent, ma ciò nonostante risulta difficile associarli interamente a quelle che sarebbero diventate le punte di diamante del movimento: questo proprio a causa della peculiarità unica della loro formula e, soprattutto, all'amore di Ken Downie per la techno e alla sua inimitabile interpretazione del genere, trasmessa in gran parte della produzione del trio. Ed ecco dunque che, sganciatisi dalla figura di quest'ultimo, Handley e Turner proseguono il loro viaggio compiendo il passo definitivo, riprendendo in mano quanto iniziato con un anticipo folgorante sui tempi quattro anni prima e costituendosi in toto come alfieri della dance intelligente. Il nome scelto per la prosecuzione del loro viaggio è, come anticipato, il marchio storico che ha segnato sin da Mbuki Mvuki la loro unione artistica, pronto a essere scolpito al fianco dei vari Boards Of Canada, Autechre, Aphex Twin, LFO e µ-Ziq.
Impazienti di dare il via alla loro nuova avventura, i due si rinchiudono in studio accettando senza indugi due diverse offerte: quella della Crane Records - piccola etichetta dalla vita breve nata poco prima e che chiuderà i battenti nel 1998 – e quella degli storici amici di Handley Alan e Dave Hill, in arte Mind Over Rhythm. Il frutto della prima è l'Ep Android, edito a soli due mesi di distanza da Spanners e contenente quattro primi bozzetti dello stile dei due: in particolare, l'opprimente e oscuro beat dispari della title track e il funambolico pastiche di melodie acidule e ritmo forsennato di “Anything” segnano il definitivo distacco dalle squadrature techno verso l'universo più arty e sperimentale dell'Idm vera e propria.
Meno interessante si rivela essere il parto congiunto al fianco dei fratelli Hill: Mind Over Rhythm Meets The Men From Plaid On The Planet Luv è di fatto un maxi-split dove Ed e Andy si limitano a firmare l'ottima “Kiss Me Off”, primo manifesto del loro futuro amore per le sperimentazioni melodiche, e la più increspata “Orange Sky”, oltre a condividere manopole e cavi per la più mansueta e macchinale “System Talk”. Il disco nel complesso si rivela però poco più di un'operazione di revival di certo sci-fi retro-futuristico ormai fuori tempo massimo, con tanto di omaggi continui all'Ultramondo degli Orb e alle fantasie analogiche degli Orbital di “Diversions”, ma privo di idee concrete che vadano oltre il puro citazionismo.
Trattasi però di due uscite volte esclusivamente a scaldare i motori in vista dell'effettiva prima mossa del duo, che impiegherà un anno per portare a compimento il suo primo lavoro sulla lunga durata, rientrando nel frattempo a casa Warp. Per assurdo, dunque, i Plaid arrivano a trovarsi nel mondo Idm nell'ultimo periodo di splendore della sua stagione, quello che dall'avvento di Squarepusher porterà all'ultimo parto di Aphex Twin, “Drukqs”, a conti fatti il vessillo finale sull'intero movimento.
Il 1997 è dunque finalmente l'anno dell'ascesa di Handley e Turner, che preparano il colpo nel giro di due mesi: a uscire per primo è infatti un Ep di tre tracce, Undoneson, vero e proprio preludio sonoro e qualitativo al successivo Lp. La title track è il primo compendio definitivo della dance intelligente targata Plaid e la conferma del loro talento di melodisti, giocato su liquidi loop sintetici ad aggrovigliarsi su un ritmo vorace. “Spudink” prosegue su una direzione simile, accentuando però il carattere zuccheroso e cristallino delle colate melodiche, mentre “Headspin” si lascia andare a dilatazioni sognanti dal gusto ambientale.
Sebbene quello dei Plaid sia un nuovo mondo, la morbidezza già propria di gran parte dei prodotti a marchio Black Dog si dimostra dunque immutata e piuttosto ri-adattata al nuovo contesto sonoro della ricerca di Handley e Turner. Otto settimane dopo è quindi la volta di Not For Threes, l'attesissimo, formidabile e sorprendente debutto sulla lunga durata del duo, nonché ennesima conferma della loro voglia incontenibile di affrontare ogni mondo sonoro tentando di restare il più possibile lontano dai cliché, interpretando piuttosto lo stesso con una massiccia dose di elementi personali e inediti. Si tratta di un autentico punto di approdo della ricerca iniziata in Mbuki Mvuki già filtrata dai due extended play precedenti: rispetto a quell'album, dunque, a calare sono i ritmi, che rallentano pur mantenendo la loro componente di frenesia. A ciò si aggiunga un ulteriore sviluppo della ricerca melodica – considerabile da qui in poi vero proprio trademark dell'estetica Plaid – e la scelta, decisamente rivoluzionaria per i canoni del genere, di spezzare l'onnipotenza elettronica includendo strumenti acustici e addirittura la voce in alcuni brani.
Il risultato è un'inattesa ventata d'ossigeno puro nel mondo della dance intelligente, seconda forse solo a quella che i Black Dog avevano inferto quattro anni prima con Bytes. La chitarra elettrica che guida le giocose scorribande di “Kortisin” è così già di per sé una mini-rivoluzione laddove ormai il laptop era divenuto strumento unico di composizione, esecuzione, produzione e missaggio, seguita a ruota dalla battente ouverture di “Abla Eedio” - ideale compimento della ricerca iniziata con Downie sulle percussioni esotiche – e dall'orchestrina cameristica riprodotta con fedeltà in “Getting”.
A mantenere i Plaid sui binari della corrente Idm sono le ruvide rimostranze dal retrogusto industriale di “Prague Radio”, i funambolismi giocosi di “Fer”, l'acido inchino di “Ol” e i frammenti di melancolia analogica di “Seph” e “Forever”. Ma laddove entrano in gioco i contributi vocali, la ricerca inizia a dirigersi verso territori del tutto inesplorati: il via lo dà “Myopia”, fra pizzicotti, legature e il terpore dei vocalizzi di Mara Carlyle, confermata pure nel passaggio per archi e accordion di “Rakimou” - qualcosa a cui l'Aphex Twin di “Ittc Hedral” e “Goon Gumpas” si era, a dire il vero, già avvicinato.
A proseguire sono, sotto false spoglie ma fin troppo riconoscibili all'orecchio, due big di statura internazionale: Nicolette Suwoton – per molti meglio nota come la voce di “Sly” dei Massive Attack – intenta a districarsi tra il marasma di bassi e distorsioni graffianti della splendida “Extork” - e Björk, che offre nell'opprimente romanticismo di “Lilith” un outtake del capolavoro “Homogenic”, edito 5 mesi prima con l'imprescindibile impronta di un altro guru della scena, Mark Bell aka LFO.
Must-have dell'elettronica nineties e insuperato vertice creativo della saga Plaid, Not For Threes è un inatteso bagliore che apre le porte a un modo nuovo e decisamente più “umano” di intendere l'Idm.
Dopo aver posto le basi per la nascita del genere stesso con Bytes e i suoi predecessori, e aver proceduto nel mescolare contemporaneamente i suoi sviluppi e quelli del mondo techno in un capolavoro di sintesi come Spanners, Handley e Turner irrompono letteralmente in quell'universo offrendo una nuova prospettiva da cui inquadrarlo. Negli anni a venire, la ricerca del duo proseguirà mantenendo quest'album come radice inscindibile e concentrandosi via via sempre più sullo sviluppo del lato melodico della loro musica, in parallelo al progressivo declino della stagione intelligent.
L'evoluzione
Trascorrono due anni, e veniamo al 1999. Molte cose sono cambiate da quando Ed e Andy hanno iniziato a muovere i loro primi, mastodontici passi nel sottobosco elettronico. L'universo dei rave party è giunto ormai alla fine del suo periodo d'oro, e con esso pure la musica affiliata, si leggano hardcore, drum'n'bass, acid e jungle. Le ceneri di questa stagione, riciclate a dovere e limate dagli spigoli più violenti, sono ripresentate non senza successo nella cosiddetta big beat dei vari Chemical Brothers e Fatboy Slim, prima di diventare merce utile anche alla causa punk nel seminale “The Fat Of The Land” dei Prodigy. L'estetica minimal imposta da Berlino all'intera Europa è esplosa al punto tale da contagiare gran parte della club music del Vecchio Continente, tanto da trasformare sperimentatori della prima era come Richie Hawtin in autentiche star. Il dub applicato all'universo digitale è sempre più ambito di ricerca: è parte integrante di quel miscuglio di hip-hop, psichedelia e sogni lucidi che compone la seconda ondata del trip-hop bristoliano e sotto i colpi a firma dei Basic Channel prima e di Monolake poi si accinge a oltrepassare l'Atlantico per raggiungere persino l'originaria Detroit (Deepchord e le produzioni Echospace su tutti) e il Canada (Deadbeat). A suggello del tutto, i Daft Punk con l'inatteso successo di “Homework”, hanno lanciato pure l'house music sul trampolino europeo: sarà dunque Parigi con il suo “french touch” la sua culla di gestazione.
Trattasi di una panoramica decisamente limitata e sintetica, sufficiente però per inquadrare il contesto nel quale i Plaid si ritrovano a lavorare al loro terzo parto sulla lunga durata, proprio mentre gran parte dei loro contemporanei iniziano a cercare di guardare altrove, di trovare una strada da percorrere per proseguire il proprio cammino.
La voluta incapacità di Handley e Turner di indugiare per più di un album sulla medesima formula li porta a cercare e trovare per l'ennesima volta soluzioni inedite, che di nuovo nascono da uno sguardo panoramico al circondariato sonoro europeo. La già citata Peel Session in incontro/scontro con l'ex-compagno Ken Downie è l'occasione perfetta per una prova generale delle sonorità pronte a ripresentarsi sul disco in lavorazione, che arriva a compimento due mesi dopo con il titolo di Rest Proof Clockwork.
L'inaugurazione della tracklist è già spiazzante e stupefacente: “Shackbu” è un nebbioso e barcollante spruzzo dub, cullante nell'ammiccare coi suoni dell'intellighenzia. La performance si ripete pure fra i più tradizionali bassi sfrigolanti di “Little People”, nel più rilassato passaggio downtempo di “Buddy” e nel curioso divertissement di “New Bass Hippo”. Contemporaneamente a questa nuova contaminazione, il disco prosegue nell'evolvere la ricerca melodica già in lavorazione in Not For Threes: la dolce e gracile “Ralome”, il carillon sibillino di “Tearisci” e la lunga sinfonia crepitante di “Air Locked” aprono così nuovi orizzonti, oltrepassando di fatto i confini del melodismo intelligent verso una nuova dimensione che verrà espansa ulteriormente negli anni successivi. Ai saliscendi zuccherini di “Dang Spot” e alle frenesie vorticose ma concilianti di “Last Remembered Thing” spetta il ruolo di mantenere saldi i ponti con il passato lontano di Mbuki Mvuki, mentre il legame con il seminale predecessore è garantito dal bignami organico di “Pino Pomo” e dall'unica traccia vocale, la sognante ed eterea “Face Me”, dove a prestare la sua ugola sarà un'ancora sconosciuta ma già incantevole Allison Goldfrapp.
Rest Proof Clockwork è un nuovo passo avanti verso il tramonto della stagione Idm e al contempo la garanzia che i Plaid sono tutto fuorché decisi a soccombere allo stesso. È un disco di nuovo pieno di idee inedite, benché per la prima volta frutto in toto della combinazione di mondi sonori già esplorati in precedenza. Il livello rimane comunque elevatissimo così come il tenore della ricerca di Handley e Turner, che centrano peraltro un nuovo apice dal punto di vista melodico, indicando silenziosamente quella che diverrà in breve tempo la principale caratteristica distintiva della loro musica.
Col passare dei mesi, il sipario sul mondo della dance intelligente inizia a calare in maniera sempre più irrefrenabile. Il 2000 è una sorta di anno sabbatico per tutti o quasi i protagonisti della scena, tutti intenti nella ricerca di una strada che sia in grado di condurli verso nuovi orizzonti, nuove terre su cui sperimentare. Avvisaglie ben chiare di ciò erano arrivate già in precedenza: in contemporanea all'uscita di Rest Proof Clockwork, µ-Ziq aveva dato vita a “Royal Astronomy”, il suo primo lavoro post-Idm. Un anno prima “LP5” e “EP7” fondavano le basi per il decollo degli Autechre verso un mondo di claustrofobia artificiale allo stato puro che avrebbe trovato in “Confield” il suo primo compimento effettivo. Il “neofita” Squarepusher, dal canto suo, aveva tentato di andar oltre invischiandosi in una fangosa melma avant nel pessimo “Selection Sixteen”, pronto a rifarsi poi in “Go Plastic”, uno dei vertici della sua carriera.
Il processo di transizione è evidente e complesso, tanto che non tutti riescono a completarlo al medesimo livello: dopo l'imbarazzante divertissement di “Windowlicker”, Aphex Twin porrà due anni dopo un veto, ad oggi persistente, al prosieguo della sua carriera, sfruttando (e, almeno in parte, abusando) le ultime riserve d'ossigeno per il monumentale “Drukqs”, esposto formale sull'estetica intelligent in grado di mescolare visionari colpi di genio a stanchissimi esercizi di stile.
Mike Dred seguirà il suo allievo sintetizzando le sue teorie nel dj mix “Innovations In The Dynamic Of Acid” prima di scomparire in via definitiva dalla scena, e pure altri alfieri Rephlex (Luke Vibert e Jeremy Simmonds) e Warp (B12 e Speedy J) faranno perdere le loro tracce, proprio quando Richie Hawtin abbandonerà i suoi storici moniker per avviare a suo nome un processo di auto-disfacimento della sua figura artistica, per divenire il Re indiscusso – assieme a gente come Ricardo Villalobos - di una minimal statica, plastica e rivolta esclusivamente al peggior target dei club.
L'ingresso nel nuovo millennio è dunque passaggio cruciale, che Handley e Turner riescono a superare completando il processo di mutazione avviato in Rest Proof Clockwork. Prima, però, i due si concedono una breve pausa di qualche mese per rimettere mano a parte del materiale concepito precedentemente all'uscita dai Black Dog: da questo intento nasce Trainer, che contiene l'intero Mbuki Mvuki, l'Ep Space In Columbia e una manciata di inediti rimasti chiusi fino a quel momento in un cassetto segreto. Si tratta di una testimonianza importante su una fase decisamente poco nota della saga Plaid, nonché dell'unico documento ancor oggi reperibile con facilità sulla stessa.
Pochi mesi dopo arriva anche l'Ep Booc, che anticipa l'uscita del nuovo long playing in quella che è ormai divenuta una tradizione per il duo. L'edizione è questa volta limitata a sole 3500 copie, ma la title track è un gioiello imperdibile affidato a coloratissimi saliscendi di prepared piano, che annunciano tra le righe il raggiungimento dell'ennesimo nuovo picco di lirismo melodico. Quest'ultimo si manifesta in ogni suono di Double Figure, sfornato a metà del 2001 e definibile senza mezzi termini come il disco dei “nuovi” Plaid per antonomasia. La dolcezza e la potenza evocativa sono i tratti somatici principali di questa nuova pelle del duo, che affonda le sue radici addirittura nei Black Dog di Spanners e che attraverso la “nuova Idm” di Not For Threes e le contaminazioni multiformi di Rest Proof Clockwork si è evoluta fino a prendere il sopravvento e a sostituirsi del tutto alla precedente. La musica dei Plaid di Double Figure è un'elettronica coloratissima, atmosferica ma vivace, dove le progressioni armoniche fanno da guida a un mondo di immagini e sublimazioni.
Il disco è senza dubbio il meno storicamente influente della trilogia delle meraviglie che idealmente va a formare con i suoi due predecessori, ma al tempo stesso è la cartina di tornasole, il ponte che collega i Plaid del passato a quelli del futuro, contenendoli entrambi. Sebbene ormai fuoriusciti dal macrocosmo Idm, infatti, Handley e Turner mantengono nella loro nuova veste i frutti delle tante geniali intuizioni del passato, in particolare per quel che riguarda l'ambito ritmico e la struttura dei brani. Quest'ultima, infatti, riprende senza mezzi termini quella di Spanners: al posto dei “Bolt” ci sono ora i “Tak” a interporsi, nella seconda parte del disco, fra un brano e l'altro. La splendida apertura di “Eyen”, cascata di sinewaves limpide e candide, lo sci-fi zuccheroso di “Assault On Precinct Zero” e il catartico notturno di “Sincetta” sono i tre emblemi del nuovo corso sonoro, forti delle migliori progressioni melodiche partorite dai due. Le odissee poliritmiche, comunque presenti sotto forma di screzi fra bassi (“Ooh Be Do”), dichiarati omaggi ad Aphex Twin (“Twin Home”) e gli ormai usuali divertissement funkadelici (“Porn Coconut Co”) abbandonano la cattiveria acida, quasi costretti a soccombere all'approccio docile e pittoresco che caratterizza l'intero lavoro. Anche le parentesi più vivaci, come l'arcobaleno danzante di “Squance” e lo scontro fra astronavi di “New Family” tendono a isolarsi in un gusto più vicino alla cinematografia che alla claustrofobia: non sarà un caso che la frontiera ultima raggiunta da Ed e Andy sia proprio quella delle colonne sonore. Unica eccezione in questo senso è la scheggia impazzita di “Zala”, velocità supersonica e arzigogoli ritmici pronti però ad essere sommersi dal terpore di una coltre melodica.
A completare il puzzle sono una serie di immersioni nella pura ambience, quali la jazzata “Light Rain”, la visionaria e incantata distesa di “Zamami”, la più contorta “Ti Bom”, guidata dal sax di Tim Hutton, e la soffice e ammiccante marimba di “Manyme”, che come da tradizione conclude con il canto laconico di Mara Carlyle.
Double Figure è il testamento dei Plaid e di un sound evolutosi esclusivamente fra i loro synth e i loro laptop, il terzo grande album di un act che si dimostrerà anche successivamente come il più longevo fra quelli protagonisti dell'elettronica degli anni Novanta. Questo nonostante le successive produzioni non siano destinate, come prevedibile, a pareggiare i conti con questa tripletta straordinaria.
La parabola
Corre l'anno 2002. Districatisi in maniera formidabile dal macrocosmo Idm per raggiungere il quale si erano di fatto distaccati dall'esperienza Black Dog, i Plaid si ritrovano nella situazione altrettanto complessa di dover proseguire oltre l'exploit rasente la perfezione di Double Figure. Quel disco ha lasciato infatti un segno indelebile nella loro storia e nel pubblico, sempre più vasto ed eterogeneo, di appassionati: da act di nicchia dell'underground elettronico, Handley e Turner sono divenuti stimatissimi autori di un'elettronica corposa e sensuale, visionaria ed evocativa, decisamente più fruibile e in grado di essere ricondotta di fatto solo al loro marchio. Difficile è ora andar oltre, proseguire nel cercare il nuovo e trovarlo senza rischiare di perdere il magico equilibrio raggiunto.
Così, a partire dall'Ep P-Brane – l'ultimo della loro carriera - i due vertono la loro ricerca sul carattere evocativo della propria musica: a essere oggetto di variazioni sono ora climi, umori e immagini, esplorati per mezzo di un sound trasformato in comun denominatore fra gli stessi. Un approccio decisamente cinematografico, come dimostrato dalle scintille à-la-Mouse On Mars di “Diddymousedid”, dagli avvolgenti guizzi di “Stills” e dai flussi in incontro-scontro di “Coat”.
Trattasi, come di consueto, di un preambolo a quanto offerto un anno più tardi da Spokes, il quarto capitolo sulla lunga durata della saga Plaid e il più difficile per i due, per via di quanto già esplicitato ma anche solo per lo status di erede di un trittico di dischi sensazionali.
I bagliori soavi di “Even Spring” danno il via, ornati dal canto astrale di Luca Santucci (quello stesso che formerà anni più tardi il progetto Stubborn Heart), a una collezione di tappeti melodici dal piglio quasi sci-fi, in grado di passare da carillon levigati (la dolcissima “Zeal”, la più downtempo “B Born Droid”) a fascinazioni di stampo power electronics (la spedita “Cedar City”, la visionaria “Marry”) concedendosi pure a qualche bizzarria di troppo (la conclusiva cascata di bollicine di “Quick Emix”, il passaggio dub di “Get What You Gave”).
L'atmosfera è in generale decisamente più rilassata e distesa, con la scomparsa totale del lato più frenetico e claustrofobico del Plaid sound – a dirla tutta, messo già in secondo piano dopo Not For Threes. Mancano gli acuti, le soluzioni a sorpresa, ma anche solo l'evoluzione nella ricerca che aveva caratterizzato tutti e tre i predecessori, mossa da quella voglia di osare che viene qui comprensibilmente contenuta. La qualità dei suoni e della produzione resta decisamente elevata, assieme a quel talento nello sfornare costruzioni melodiche cristalline ed evocative: sono questi i punti di forza di un album che accontenta e appaga senza però entusiasmare come avvenuto in passato.
Da questa nuova modalità di far musica improntata con forza sulle immagini e sulle atmosfere, il passo che porta al mondo delle colonne sonore è decisamente breve. Così, dopo Parts In The Post - una raccolta firmata Peacefrog che testimonia la poco nota ma non meno interessante attività di Handley e Turner come remixer - i due decidono di fermarsi per una pausa (destinata a durare tre anni), alla ricerca dell'occasione per poter portare la loro musica – in quel momento passibile di significativi sviluppi o evoluzioni – in un contesto totalmente nuovo. L'occasione buona arriva nel 2006: a fornirla è il regista Michael Arias, americano di nascita e giapponese d'adozione, che trova nei soundscape dei due l'accompagnamento ideale alle avventure animate del suo Tekkonkinkreet, che in Italia arriverà col titolo di “Soli contro tutti”. La soundtrack messa in piedi dal duo è esattamente quel che chiunque avesse seguito la loro storia in quel periodo si sarebbe potuto aspettare: una riproposizione delle sonorità docili e levigate di Spokes, in una veste ancor più lontana dal mondo della techno e non altrettanto distante da una dimensione cameristica.
Come indicato dai titoli dei brani, il disco risente in maniera decisiva delle necessità cinematografiche, che i due si dimostrano decisamente abili a colmare – su tutte la marcetta funambolica di “Rat's Step”, la decadenza futuristica del tema principale di “This City” e la tensione a base metallica di “Oasis”. Per la prima volta nella loro carriera, però, il tutto sembra più frutto di una pre-costruzione che di vera e propria ispirazione, confezionato (comprensibilmente) per suonare in una determinata maniera, ma al tempo spesso poco spontaneo. Le incursioni nella world (il tribale acustico di “Brothers Chase”), nel jazz (“Butterfly”) e in oscurità dal retrogusto industriale (“Open Kastle”) convincono ben poco, e non si figurano di certo come possibili nuovi scenari di ricerca musicale; al contrario, “This City Is Hell” - il più classico dei loro carillon – la pura ambient di “Safety In Solitude” e della splendida e malinconica “White's Dream” suonano come inappellabili dimostrazioni di supremazia, in grado di garantire qualità all'intero prodotto. Sorprende non poco, invece, in un disco dalla natura volutamente autocitazionista, la presenza di un barlume di inedito come la tempesta glitch-pop di “Where?”, spunto che non verrà però seguito in futuro.
Che Tekkonkinkreet sia, nelle intenzioni, un progetto artistico che va ben oltre la semplice soundtrack, lo dimostra l'album di remix che la Ainplex da alle stampe l'anno dopo: a rivisitare sotto nuove spoglie i brani dell'originale vi sono, fra gli altri, Sua Maestà Derrick May, Uwe Schmidt, qui presente come Atom, Mathew Jonson e Prefuse 73. Più altisonante per i nomi che per il suo contenuto, Tekkonkinkreet Remix Tekkonkinkreet è comunque un buon contraltare alla colonna sonora originale, che tende però a passare in sordina per l'arrivo, a sorpresa pochi mesi dopo, del sesto capitolo della saga Plaid.
In Greedy Baby, Handley e Turner proseguono il loro percorso forti dell'influenza della recentissima esperienza visiva: Bob Jaroc, visual artist e regista già di alcuni loro videoclip, è così chiamato a co-firmare il lavoro che si presenta come una vera e propria opera multimediale. Brillante e illusorio nella confezione, il disco rivela però tutta la sua debolezza una volta di fronte al suo contenuto: un mix equo e questa volta pure piuttosto stanco delle atmosfere di Spokes (“I Citizen The Loathsome”, “The Launching Of Big Face”, “E.M.R.”) e delle tensioni già poco riuscite in Tekkonkinkreet (“War Dialer” e le due metà di “The Return Of Super Barrio”), a cui si aggiungono gli anacronistici ritorni al passato di “Super Positions” e della frenetica “To”. A mancare, questa volta, non è solo un guizzo o una qualsiasi forma di novità rispetto al sound dei due (già non esaltanti) predecessori, ma la linfa creativa.
Considerabile a conti fatti quasi più come una colonna sonora ai ben più riusciti effetti video che come un album in senso stretto, Greedy Baby è il primo vero passo falso dei Plaid in quindici anni di onorata carriera, destinato col senno di poi a rimanere quasi del tutto isolato.
Consci della momentanea incapacità di procedere in un percorso di variazione, anche minima, della loro identità sonora, Ed e Andy decidono di fuoriuscire per un anno buono da qualsiasi studio e di incrementare la loro attività dal vivo. I loro live show si distinguono per i caratteri austeri e la quasi totale assenza di effetti speciali, eccezion fatta per visuals mai così in primo piano da poter superare lo status di “fondali”. Dietro ai loro fidi laptop e ad alcuni rappresentanti in miniatura della loro collezione di synth analogici, i Plaid mescolano remix, improvvisazione e memorie dai loro album, fra cui i più rappresentati sono Double Figure e Spokes. Il tutto mantenuto sotto un controllo diretto e adattato, mediante live editing, al contesto della successione sonora. Ciascun brano si mostra così, di set in set, con una veste nuova, strettamente legata ai suoni che ne precedono l'esecuzione e a quelli che verranno subito dopo. Totalmente assente è anche qualsiasi forma di programmazione: i pezzi provenienti dall'archivio vengono selezionati di volta in volta, così come i suoni assemblati nei tratti improvvisati, e ai due bastano occhiate e qualche gesto per coordinarsi sul da farsi. Una macchina perfetta e in grado di rinnovarsi periodicamente, aggiornando il proprio hard disk di nuovi suoni e ritmi mai uditi su disco in precedenza, sfruttando dunque la spontaneità della dimensione live come banco di prova alternativo e in questa fase antecedente allo studio di registrazione.
Sarà proprio questa nuova modalità di procedere a far trovare ai Plaid la via per un'inattesa rinascita sonora, che si concretizzerà qualche anno più tardi, proprio quando l'interesse – già calante dopo i primi anni Duemila – nei confronti delle realtà post-Idm scemerà radicalmente. Nel mezzo, c'è spazio ancora per un fallimento, corrispondente alla seconda esperienza del duo nel mondo del cinema: è di nuovo Michael Arias a chiamare a sé Handley e Turner, questa volta per musicare Heaven's Door, suo remake di “Knockin' On Heaven's Door” di Thomas Jahn. Il parto dei due producer è un ripetitivo e svogliato miscuglio dei suoni di Double Figure, con rinuncia quasi totale alle pessime incursioni ambiance di Tekkonkikreet e Greedy Baby. Proprio per questo, l'album risulta a conti fatti più innocuo che propriamente malriuscito, ma in grado al tempo stesso di suonare come la possibile pietra definitiva sul loro futuro sonoro. Dopo l'exploit dei primi tre straordinari dischi, la saga di Ed e Andy sembra aver perso quello smalto e quella creatività necessaria come sostanza da unirsi alla capacità evocativa – ormai puramente formale e astratta – della loro musica.
La resurrezione
È il 2011 quando Warp annuncia l'uscita, a quattro anni da Greedy Baby, di un nuovo prodotto in studio a firma Plaid. Tre ne sono invece trascorsi dal (di fatto ininfluente) Heaven's Door. Anni nei quali i due hanno deciso di proseguire quell'attività live che era sembrata l'unico spiraglio per uscire dalla crisi creativa dell'ultimo periodo, mettendo da parte per un po' qualsiasi avventura discografica.
Molto è cambiato da quando Double Figure, ben dieci anni prima, aveva dimostrato la loro incredibile capacità di ricrearsi un mondo sonoro nell'epoca post-intelligente. Se dopo quell'insuperato apice i due hanno commesso un errore, quello è stato senza dubbio il rinunciare a una caratteristica prima della loro musica fin dai tempi dell'esperienza Black Dog: la contaminazione. Quella voglia incessante di superare le barriere stilistiche, di pescare dai mondi meno scontati, quella che li aveva portati – assieme a Ken Downie – a creare un asse Sheffield-Berlino-Detroit con almeno tre anni d'anticipo sulla raccolta dei Basic Channel dell'eredità Underground Resistance. Quella grazie a cui Ed e Andy avevano fatto irruzione nel mondo Idm nella maniera più inattesa con Not For Threes, per poi evolversi guardando ai fumosi universi del dub in Rest Proof Clockwork. Quella voglia pronta a ripresentarsi dopo tre anni di concerti in giro per il mondo, che già aveva dato un futuro a Mike Paradinas e alla sua Planet Mu, passati da alfieri di una Idm sempre più colorata a progenitori dell'importazione in Gran Bretagna delle sorprendenti novità americane – juke e footwork su tutte. Quella stessa che, al contrario, ha segnato il progressivo declino degli Autechre e la sempre più estrema fossilizzazione del loro soundworld, quella a cui Aphex Twin si è opposto scomparendo ad oggi completamente dalla scena discografica.
Fatto sta che nel 2011 sono ben in pochi ad aspettarsi un exploit particolare dai Plaid, finiti di fatto nel dimenticatoio pure dei nostalgici dell'elettronica nineties. Ed è forse questa la ragione per cui la resurrezione di Scintilli finisce per passare di fatto inosservata. Di footwork e juke si era parlato con µ-Ziq, di inchini al mondo dei beat è pregno invece il nuovo album del duo di Sheffield, tornato a guardarsi attorno e a captare le tendenze con cui “sporcare” il proprio sound. Un trend, questo, che si era già notato – come detto – in molte esibizioni dal vivo: non sorprende dunque che Scintilli sia il disco più vivace, diretto e live-oriented della loro carriera, il primo ad abbandonare definitivamente quell'accezione cameristica da sempre tratto somatico della loro elettronica, pur senza tornare a cospargersi delle asperità acido-frenetiche perse dopo Double Figure. Un'autentica bomba a orologeria, che prende il via sul tappeto melodico più sfavillante e paradisiaco mai composto dai due, quella “Missing” dal retrogusto quasi psichedelico guidata da vocoder alieni che segna il primo step di una possibile nuova era. Sono di nuovo le voci elettroniche a guidare nella danza lunare di “Unbank” e nel fluttuante incedere di “Tender Hooks”, mentre l'irresistibile e roboante motore a scoppio di “Eye Robot” è una strizzata d'occhio senza mezzi termini ai bassi post-garage. La nostalgia trova uno spazio decisamente ridotto, condensato nelle frizioni à-la-LFO di “Upgrade”, nel nuovo capitolo della “passione etnica” di “African Woods” - stavolta sotto l'egida di Four Tet – e nella pioggerella techno di “Thank”, dove i suoni sono però decisamente più vicini alla Berlino di DJ Hell che a Letfield. Assieme alla linfa creativa, torna a toccare nuove vette anche il mai perso talento per le armonie cristalline: è il caso dei passaggi ambient di “Craft Nine” e “35 Summers” - memori del meglio di Tekkonkikreet – e dei giochi di vocoder della conclusiva “At Last”, di sicuro il pezzo più pop della loro carriera.
Scintilli segna il ritorno nell'olimpo del duo più longevo e camaleontico della Gran Bretagna elettronica degli anni Novanta. Pur non trattandosi di un lavoro seminale al pari della trilogia che ha inaugurato la loro carriera, il disco è un condensato compatto e fresco del loro suono aggiornato alle tendenze del Nuovo Millennio, pregno di quei tratti somatici che hanno reso grande il Plaid sound. Al tempo stesso, è un prodotto decisamente più morbido e accessibile, in tal senso in continuità con l'evoluzione progressiva che aveva portato a Double Figure, del quale si candida come primo autentico erede.
Riprese in mano le redini della propria carriera, i Plaid decidono di riprovare – a distanza di nemmeno un anno – a interfacciarsi con il mondo del multimediale. Questa volta è Evan Bohem ad affidare loro il commento sonoro per il suo cortometraggio The Carp And The Seagull, ruolo che i due ricoprono evocando con i loro suoni l'universo acquatico: i nove brevi frammenti in cui si divide la soundtrack si immergono in una ambient-techno liquida e astrale, decisamente lontana da qualsiasi lavoro passato del duo e per assurdo più simile allo stile sviluppato parallelamente dall'ex-compagno Ken Downie sotto l'inossidabile marchio Black Dog. Passaggio minore, quasi un side-project, e pubblicato da Warp in edizione limitata, ad oggi complesso da reperire, si tratta comunque del miglior risultato dei Plaid nel mondo delle colonne sonore, e di un'ulteriore conferma della loro avvenuta resurrezione.
Per tutto il 2012, Ed Handley e Andy Turner hanno condotto Scintilli dal vivo girando l'Europa, passando perfino dall'Italia per una memorabile data milanese con un'audience decisamente ridotta rispetto al valore dell'evento.
Devono passare solo due anni perché i due si riaffaccino al mercato discografico, nonostante la notizia resti per parecchie settimane a suffragio di pochi intimi, complice il ritardo di Warp nella promozione. Reachy Prints non è un disco senza macchie, non è particolarmente originale né stupisce in alcun modo, non ha nemmeno quella brillantezza variegata che aveva reso grande il suo predecessore. Si tratta semmai di un paradigma, un album “tutta sostanza” dove la mancanza della forma tende talvolta a farsi pure sentire, un disco che incarna come nessuno in precedenza l'approccio dei Plaid nel far musica. Il passo in avanti si colloca in piena continuità con Scintilli e conduce al definitivo addio alle sfaccettature ritmiche con contemporaneo inchino alla forza della melodia e al sogno lucido, al punto da lambire talvolta persino le forme più sofisticate e lussuose dell'universo downtempo. Ma la verità è che questi nove brani sono “successivi” solo ed esclusivamente a livello temporale, perché portano in realtà alla luce in forma pura quelle che sono da sempre le peculiarità maggiori della musica dei Plaid. La culla che il carillon di “Nafovanny” ci fa scoprire, per esempio, non è che la stessa dove, quindici anni o poco meno fa, Ed e Andy si cimentavano nel semplificare le complex equation di origine idm, che qui vengono definitivamente ridotte in forma normale fra isorrisi spontanei di "Tether" e i lamenti soffusi di "Ropen". “Wallet” fa lo stesso tornando a calcare la mano sulla storica abilità di sigillare emozioni fra i tasselli coloratissimi dei loro caleidoscopi. Nel medesimo solco stilistico, l'uno-due di partenza è di quelli da autentico knock-out: la progressione irrefrenabile “OH” e il dolcissimo acquerello di “Hawkmoth” sono prove di autentica maestria, gemme cristalline che nessun altro ha ad oggi dimostrato di saper partorire. Per contro, i tentativi di stupire a base di effusioni jazzy in “Liverpool Street” e di scintillanti suoni sci-fi in “Matin Lunaire” non sortiscono l'effetto sperato, pur non intaccando minimamente lo scorrere fluente della tracklist.
Di anni dall'esordio vero e proprio a Reachy Prints ne sono passati ventitré, da quello effettivo “solo” diciassette, ma alla musica dei Plaid le primavere sembrano aver fornito solo maturità e consapevolezza creativa in dosi copiose, al contrario di quanto avvenuto per gran parte degli altri protagonisti della “vecchia” idm. E poco importa se stavolta il brio è meno di quanto lo era stato in precedenza e il mestiere si sente forse un po' più del solito: è di gente così, che fa elettronica di classe col cuore e che con l'elettronica sa evocare e toccare il cuore, che non smetteremo mai di avere bisogno.
Proseguendo la ricerca da poco re-intrapresa, il cui perno centrale odierno sono proprio le sperimentazioni live, i Plaid sono oggi uno dei fiori all'occhiello del catalogo Warp, nonché forse l'unico act superstite della stagione Idm a continuare il proprio percorso all'insegna della modernità. Un progetto imprescindibile per l'elettronica del passato e nel pieno splendore di quella del presente.
Atto III: The Black Dog, after Idm
Il "periodo di mezzo": l'open-act
La dipartita di Ed Handley e Andy Turner dai Black Dog, come già specificato in precedenza, era stato evento tutt'altro che inatteso per Ken Downie, ormai avviato su una strada totalmente diversa, che portava dritta verso Berlino e il sempre più fiorente sottobosco techno. Prima ancora che i Plaid avessero il tempo di completare e lanciare Not For Threes, il producer sembrava quasi impaziente di affrontare in libertà il proprio soundworld: il mezzo della library music non aveva però certo aiutato il già anonimo Music For Adverts (And Short Films), capace di calare con delusione un velo momentaneo sul marchio Black Dog.
Proprio in quel periodo, conscio di dover affrontare lo scoglio della riscossa, Downie decide di abbandonare temporaneamente l'act di cui era rimasto membro unico, così da avere il tempo di riordinare le idee per una ripartenza in grande stile. Inizia così, per lui, un lungo periodo di studi scoperte: Berlino è la meta principale, ma ci sono anche un underground londinese in fervente sviluppo e certi club di stampo house fra gli universi che lo attraggono. Ed è proprio in questi ambienti che Downie scopre e rimane affascinato da una nuova forma di collaborazione artistica: quella del collettivo. Egli ritrova in questo nuovo modus una convergenza fra la possibilità, tanto ambita in passato (come dimostrato dalla natura di Bytes), di mantenere indipendente la propria identità sonora da quella degli altri membri e i vantaggi del lavorare fianco a fianco con altre menti creative. In circostanze ancora una volta mai esplicitate – Downie si limiterà ad affermare nelle rare interviste l'avvenuto passaggio di status del marchio e la naturalezza dello stesso – i Black Dog divengono così un collettivo, assumendo una forma destinata a permanere per metà del decennio Zero.
I primi anni di questa nuova fondazione del progetto vedono Downie alternarsi a svariati compagni di viaggio e intento principalmente nel ruolo di remixer: le figure-cardine ad affiancarlo in questa fase sono quelle del chitarrista Ross Knight (solo omonimo del più noto Cosmic Psychos) e di Steve Ash, sound engineer con la passione per il multimediale. L'orizzonte attorno al neonato collettivo si allarga così al mondo della video art, del design e della letteratura: in quest'ultimo ambito, in particolare, Ken e soci riescono a strappare un'improbabile collaborazione con William S. Burroughs, chiamato a “recitare” su alcuni esperimenti con la spoken poetry.
I Black Dog sono in questi anni un autentico vulcano, con i pro e i contro dello status: a un brulicare di idee e progetti corrisponde la difficoltà di concentrarsi per riuscire a portarli a termine dando così un risvolto pratico ai tanti intenti. Proprio per questa ragione si devono attendere ben cinque anni prima che venga dato alle stampe un lavoro a nome Black Dog, eccezion fatta per i numerosissimi remix collezionati tra 1997 e 2002. Qualche anno più tardi, sarà Downie stesso a confermare che “in quel periodo non uscì nulla, ma eravamo decisamente impegnati, molto più di quanto lo siamo mai stati, probabilmente anche troppo”.
Forse anche per l'eccessiva fretta con cui viene confezionato, Unsavoury Products – il disco del “ritorno”, ma anche il primo e ultimo dei Black Dog a formazione “aperta” - è di sicuro il peggior prodotto mai edito sotto il marchio. Trattasi di un omaggio a Burroughs, nel frattempo scomparso e i cui contributi collaborativi risalenti a parecchi anni prima saranno destinati a restare inediti. Al suo posto viene arruolato il giovane Black Sifichi, che proprio a partire da qui avvierà una carriera che lo porterà a collaborare, fra gli altri, con nomi come Mathias Delplanque, Florian Hecker, Philippe Petit, Simon Fisher Turner e Rob Mazurek. L'album risente in maniera decisiva nella sua componente musicale dello spirito libertario e, a conti fatti, piuttosto anarchico che contraddistingue l'attività del collettivo: tanti sono i mondi esplorati con superficialità e in maniera sbrigativa da Downie e soci, al punto tale che l'unico vero comun denominatore fra tutti i brani è l'agghiacciante voce trattata di Sifichi, vagamente simile a quella di qualche personaggio della saga “Star Wars”.
I tentativi a vuoto vanno così a vertere su dub algoritmici che vorrebbero ispirarsi a Monolake (“Dogbite”, “Secret Biscuits”), sfrigolii harsh-noise che troppo devono ai vari Drumm e Haswell (“If I Were King”, “New York Dox”), rifugi in una chill-out decisamente anacronistica (“Someone At The Office”, “Science Tells Us”, “Wishing Well”) e pure ammiccamenti vaghi e confusi all'hip-hop (“Invisible Things”, “Interview”) e all'acid-jazz (“What Do They Want?”, “Pigeon Chest”).
Come se questa serie di grossolane cadute di stile non fosse sufficiente, a completare un lavoro di ben venti brani ci pensano una serie di ancor più inutili divertissement, brevi e spezza-ritmo (nella tradizione lanciata da Spanners), ma in grado di appesantire ulteriormente un ascolto già radente l'imbarazzante.
Non basteranno i remix in scia a dancefloor lunari – comunque già più dignitosi – di Genetically Modified a risollevare le sorti di un autentico pesce fuor d'acqua nella discografia a marchio Black Dog, nonché della peggior testimonianza possibile di un periodo quantomai denso e impegnativo della storia di Downie e soci.
Il nuovo assetto e la conversione techno
Negli anni a venire, seguendo quanto riportato più volte da Ken Downie, al nome Black Dog continuerà a corrispondere un gruppo aperto all'ingresso di qualsiasi figura interessata a contribuire artisticamente alla causa dell'act. Ciò nonostante, dopo la disfatta di Unsavoury Products e considerata l'impossibilità di portare a compimento l'eccessivo numero di progetti in lavorazione, il producer di Letfield decide nel 2004 di riportare l'(ormai esclusivamente) sua creatura a una fisionomia più stabile. Delle varie personalità transitate sotto il vessillo sono due fratelli, Martin e Richard Dust, a profondere l'impegno maggiore, guadagnando così sempre più importanza all'interno del collettivo, fino a divenire gli unici due membri stabili assieme al fondatore. Il passo decisivo arriva nel 2005, quando i due decidono di dar vita a una loro etichetta discografica, la Dust Science, con l'intento di avere un trampolino fisso e autogestito per pubblicare il materiale accumulato dopo i pessimi esperimenti pre-2002. Con quest'atto, di fatto, i Black Dog tornano a comporsi come un trio, assetto che manterranno fino ai giorni nostri.
Alla fondazione dell'etichetta segue, quasi a voler saziare la fame di uscite accumulata negli anni, una pioggia di singoli, extended play, tutti esemplificativi della tendenza sonora sulla quale i tre hanno deciso di concentrarsi. Trattasi di un universo dalla matrice prettamente techno, che pesca dal passato nei tratti più astrali e atmosferici, dal longevo amore di Downie per la Berlino minimal sperimentale nelle squadrature ritmiche e dall'esperienza dei fratelli Dust nei passaggi più sinistri e battenti.
Fra i numerosi 12'' che vedono la luce nel 2005, risaltano il banco di prova di Bite Thee Back e i due gioielli Trojan Hours e Remote Viewing, i cui a-side sono entrambi contenuti nella prima opera dei “nuovi” Black Dog: il monumentale e magnifico Silenced. Proprio le due metà del primo extended play aprono le danze trasmettendo direttamente da un pianeta lontano le cronache di un viaggio intergalattico, concedendo agli spruzzi sospesi di “Lam Vril” e alle dilatazioni desolate di “Truth Benders D.I.E.” di comunicare le prime coordinate di posizione.
A questi primi quattro classici del nuovo repertorio si aggiungono il terpore analogico della splendida “Sudden Intake” e l'apertura liquida di “The Stele Of Revealing”, assieme agli episodi più prettamente ritmici, come la cavalcata in slow motion di “Alt/Dash/Return/Kill”, l'inferno dub di “Remote Viewing” e il trionfo hi-hat di “Gummi Void”, prima che le conclusive due metà di “4 3s 555” si lascino cadere in una rarefazione puramente ambientale. Alcuni nuovi episodi della serie “Bolt” fungono da skit tra i brani, completando la tracklist all'insegna del mantenimento di una tradizione che è pure di fatto l'unico vero legame con il passato Idm.
Ben di rado, nel passato recente e non, un disco techno era riuscito a rimanere improntato alla sua definizione raggiungendo profondità atmosferiche ed emozionali come quelle proprie di Silenced. La musica dei Black Dog perde qui ogni forma di contatto con l'intellighenzia degli anni Novanta, abbandonando ogni spigolo in favore di una morbidezza che scava fino a trovare un nuovo volto all'estetica minimal. Un lavoro che riscatta a pieno titolo il fallimento del suo predecessore, e che apre le porte a una nuova stagione per il ritrovato trio inglese, pronto a divenire nel giro di pochi anni fra gli act più richiesti da club e festival in ambito techno.
Finalmente decollato dopo la lunga e travagliata gestazione, il nuovo trio titolare dell'act prosegue tra il 2005 e il 2008 a seminare singoli (interrotti solo dall'ottima compilation commemorativa del periodo nineties Book Of Dogma) equamente divisi fra i cataloghi Dust Science – nel frattempo ampliatosi grazie ai lavori di alcuni producer legati anche indirettamente al collettivo, come Anthony Shakir, Carl Taylor, Claude Young e Dan Curtin – e quello della Soma Quality, storica etichetta fra le primissime a occuparsi di techno in Inghilterra. Proprio per quest'ultima nel 2006 vede la luce Riphead, extended play che testimonia il prosieguo del cammino verso la techno vera e propria: i ritmi si fanno più serrati, il suono più compatto e meno disteso, l'atmosfera più robusta.
Mantenendo lo schema già adottato per Silenced, Downie e i fratelli Dust aspettano un paio d'anni per compilare un nuovo mix di inediti e a-side dai 12'' seminati sul catalogo dell'etichetta londinese, che vede la luce a inizio 2008. Radio Scarecrow segue la lunghezza d'onda dei frammenti che l'hanno preceduto e che in parte raccoglie, votandosi a una techno lussureggiante anche se decisamente più oscura. Pur non perdendo in toto quella morbidezza da sempre caratterizzante la visione del genere di Downie, il disco vede scomparire quasi del tutto le atmosfere distese e liquide che avevano caratterizzato Silenced almeno per metà – eccezion fatta per la sonata pianistica di “Ghost Vexations” - mettendo l'accento invece sulle trame più ipnotiche e dancefloor-oriented della musica del trio. Si tratta anche del primo di una serie di lavori dove le velleità artistiche di Richard e (soprattutto) Martin Dust finiranno per prevalere su quelle di Downie, con conseguente spostamento verso lidi sonori più sinistri e martellanti. Così, le due metà di “Train By The Autobahn” - provenienti dall'interessante scambio di pareri con il maestro e mentore Robert Hood sul singolo Detroit vs. Sheffield – vertono su un'estetica in tutto e per tutto affine alla minimal pura, mentre “UV Sine”, “Siiipher” e i ripescaggi di “Floods” e “Riphead” premono sull'acceleratore, lanciandosi fra le piste da ballo più underground. Seppur mantenendosi su livelli qualitativi solidi, il disco finisce per risentire della perdita di quei tratti somatici astrali che avevano reso grande il suo predecessore, risultando a conti fatti una buona raccolta di pezzi techno artigianali decisamente più adatti all'esecuzione dal vivo o in dj set che all'ascolto su stereo.
A nemmeno un anno di distanza, è sempre Soma Quality a licenziare Further Vexations, ideale primo capitolo di una trilogia destinata a estendersi all'Ep Vexing e ai remix di Final Collected Vexations. Più che come sequel, il disco va inteso come vero e proprio enhanced listening sul lato più oscuro e minimale della musica del trio, qui protagonista ancor più che nell'album precedente, rispetto al quale la musica torna ad allontanarsi con decisione dal dancefloor. Le tre sezioni di “Northern Electronic Soul” rappresentano il vertice di quest'espressione del nuovo Black Dog sound, ben incarnato anche dall'iniziale grattacielo digitale di “Biomantric L-if-e” e dal diluvio battente di “0093”.
Per la prima volta nella storia dell'act, i titoli hanno chiari riferimenti all'attualità, novità anch'essa introdotta dal prevalere – qui pressoché totale – dell'anima artistica di Richard Dust. È il caso della claustrofobia scomposta ai minimi termini di “CCTV Nation” - dipinto espressionista di una Gran Bretagna oppressa dal controllo - e dell'attacco alla paranoia governativa sotto forma di grancassa primordiale di “You're Only SQL”. Anche laddove ritmi e tensione calano, come nella discesa caustica di “Later Vexation”, l'atmosfera permane sinistra quanto basta per rendere Further Vexations il prodotto più dark a marchio Black Dog, decisamente più personale e originale del precedente Radio Scarecrow sebbene comunque di nuovo lontano dalle vette di Silenced.
Il successivo disco di remix trasporta i medesimi scenari nel mondo della techno più impetuosa e geometrica dei vari Chris Liebing, Sandwell District e Silent Servant, donando loro una veste nuova ma non sempre calzante. A precederlo cronologicamente, l'uscita del Cd-R Ov Mind, Ov Magick, limitato a sole 110 copie e contenente la registrazione di una performance dal vivo tenuta nel 2009 a Bruxelles.
Gli ultimi anni e il nuovo ingresso nell'olimpo
Reduci da due progetti in totale coerenza con lo spirito assunto ma non in grado di eguagliare la splendida inaugurazione del nuovo corso, Downie e i fratelli Dust decidono di tentare di portare la loro musica verso nuovi lidi. Il tutto avviene mantenendo la prolificità assunta negli ultimi anni, grazie alla quale i tre non aspettano poco più di metà anno prima di riaffacciarsi nuovamente sulle scene, con l'ultimo capitolo ad oggi del loro sodalizio con Soma Quality. Così, se in Radio Scarecrow l'ambientazione era il un dancefloor oscuro e in Further Vexations un mondo alienante e sinistro, per Music For Real Airports il luogo prescelto è il simbolo per eccellenza dell'ambient music, quello che Brian Eno aveva descritto trent'anni prima nel suo visionario capolavoro. Ma la svolta non finisce qui: il disco segna anche il primo contatto del marchio Black Dog con il mondo del multimediale, nonché un nuovo dialogo con il visivo dopo Music For Adverts (And Short Films).
Si tratta infatti di un progetto commissionato da alcune gallerie d'arte contemporanea londinesi condiviso a quattro mani con lo studio di design Human e composto da una parte visiva, a cura di questi ultimi, e da quella musicale. Rispetto alla rivoluzione enoiana, che portava la musica a essere corredo dell'ambiente, qui essa ne è descrizione fedele, grazie all'ampio uso di field recordings e campionamenti presi direttamente sul posto. Stilisticamente, il ritorno è al soundscape astrale e crepuscolare di Silenced, qui ulteriormente approfondito nella sua componente ambientale. Prendendo ispirazione in parte da Eno e dall'altra da quelle evoluzioni di simbiosi fra ambient e techno di cui Aphex Twin fu pioniere nel suo “Selected Ambient Works 85-92” - e alle quali gli stessi Black Dog di Bytes non erano certo rimasti indifferenti – i tre costruiscono un'opera finalmente convincente e originale, in grado di rappresentare l'approdo in una dimensione sonora inedita.
La desertica e notturna “M1”, la forma accennata di “Terminal EMA”, la sonata à-la-Harold Budd di “Delay 9” e le due metà di “Sleep Depravation” sono autentiche gemme di ambient music fra le più evocative mai composte dal duo. Anche laddove il ritmo fa capolino si resta in un mood totalmente disteso: è il caso della livida “DISinformation Desk”, della sinistra “What Behind This Line” e della coppia “Business Car Park 9”-“Empty Seat Calculation”, oscillanti sottovoce con un tintinnio concreto. Pure nei pochi episodi più vivaci – gli incroci ritmici in slow motion di “Strip Light Hate” e “Future Delay Thinking” - il ricordo porta per atmosfera al disco precedente e per stile a un autentico comeback in quel territorio pre-Idm del quale Downie era stato precursore ai tempi del sodalizio con Handley e Turner.
Music For Real Airports è l'esposizione più completa del lato più atmosferico e evocativo dei Black Dog, nonché il perfetto contraltare alla discesa sul dancefloor di Radio Scarecrow. La produzione gelida e l'evidente necessità di rientrare nei cliché futuristici del multimediale sono i pesi che impediscono all'album di aggiungersi in toto all'olimpo dei grandi album dell'act, benché si tratti di un netto e coraggioso passo avanti rispetto agli ultimi predecessori.
Rientrati dopo l'esperienza a casa Dust Science, Downie e i Dust tornano a saturare l'ultima metà del 2010 e tutto il 2011 di 12'' in limited edition, fra cui si fa notare in particolare Thee Lounge, un ideale Ep di accompagnamento all'ultimo disco in continuità sonora e grafica con lo stesso, e con la lente d'ingrandimento puntata sull'ambiente della sala d'attesa. Un ulteriore passo verso il mondo dell'ambient music avviene con il progetto Dadavic Orchestra, nato dall'incontro fra il trio e gli Psychick Warriors Ov Gaia - altro progetto quasi mitologico della scena techno tedesca - nella formazione a tre composta da Reiner Brekelmans, Robbert Heynen e Tim Freeman. Ad oggi irreperibili sono i loro tre Dokument - due Ep inframezzati da un cd - pubblicati tutti in strettisime limited edition da Dust Science e in ogni caso affini a sonorità di stampo ambient-drone.
Ma proprio quando era lecito aspettarsi una prosecuzione d'avventura sulla stessa falsariga, il trio sorprende tutti di nuovo pubblicando l'ennesimo Lp a fine anno e tornando con forza sui suoi passi. Liber Dogma è infatti, come dichiarato dallo stesso Richard Dust, un disco lavorato esclusivamente nell'ottica del dancefloor, nonché un voluto omaggio alle sonorità minimal berlinesi. Il risultato è un irrefrenabile susseguirsi di squarature e beat in un'ideale evoluzione di quanto sperimentato in Radio Scarecrow. Non ci sono però l'oscurità e quell'ultimo velo di morbidezza che avevano caratterizzato quel disco, e decisamente rigettato è qualsiasi rimasuglio delle esperienze degli altri due episodi della trilogia Soma Quality: il clima è questa volta austero, puro e ipnotico, senza spazio alle mezze misure.
La partenza di “Dark Wave Creeping” è chiamata a far da ponte per mezzo di scintille analogiche dal marcato sapore krauto, prima che le impietose bordate di “Steam Caliphate” e “Drop Kick Kali” si buttino ipoteticamente sulle piste del Berghain seguendo le gesta di un Ricardo Villalobos in stato di grazia. La festa è appena cominciata, e se fra le piaghe melodiche di “The Black Maria” sembra quasi aprirsi un flebile pertugio, il martello rovente di “Silent Escape” arriva addirittura a sconfinare dal terreno minimal, avvicinandosi senza mezzi termini al sound di un Drumcell. Proprio sull'estetica minimale mette invece l'accento la parte conclusiva del disco, fra i sussurri pungenti di “Hype Knot 7” e i rimaugli rave ridotti ai minimi termini di “Worship: The Drum”, quasi una visita in punta di piedi in quel sottobosco frenetico dal quale Downie e compagni avevano voluto evadere all'inizio della loro carriera.
Liber Dogma è una spiazzante e inattesa quanto solida e convincente opera di omaggio a quei suoni che da anni Ken Downie aveva introdotto a dosi controllate nella formula sonora evolutasi nel corso della sua carriera. La spinta propulsiva dei Dust è servita dunque al tardivo incontro tra il producer e la sua eterna passione per Berlino e i suoi suoni, evento a conti fatti più importante per la storia del trio che per la sua valenza – si tratta in ogni caso di un lavoro che nulla aggiunge a quanto portato avanti nella capitale tedesca sin dai primi Novanta.
L'onda che segue all'uscita del disco è forse questa volta più inattesa dal trio che da chi ne ha seguito la gestazione: fuoriuscendo da quello status di mito intangibile nel quale il marchio Black Dog si era ritrovato per certi versi impantanato negli ultimi anni, Downie e i fratelli Dust si trovano a dover fronteggiare un successo inatteso nel mondo della club music, svariate proposte provenienti dalle location più quotate in ambito techno e una nuova schiera di estimatori proveniente dal popolo delle notti. Per quanto vada ammesso che la violenza (perché, per la prima volta, di tale si tratta) organica che aveva caratterizzato Liber Dogma vantava alcuni sporadici precedenti proprio nelle esibizioni dal vivo di quel periodo, queste ultime sono oggi portate agli occhi anche di coloro che, avvicinatisi al mondo techno quando la stagione Idm era già giunta al tramonto, non avevano potuto apprezzare gli storici fasti di Downie nella prima incarnazione della sua creatura.
Per tutto il 2012, dunque, le esibizioni live si spargono uniformemente su tutto il continente europeo, ed è proprio il Berghain di Berlino – il tempio più prestigioso della techno del Nuovo Millennio – ad arruolarli per una collaborazione fissa che prosegue tutt'oggi. Ed è proprio durante le esperienze dal vivo che articolano suggelli dal glorioso passato alle richiestissime martellate di Liber Dogma, a plasmarsi con naturalezza nei tre la sostanza che prenderà poi forma, un anno più tardi, nel loro ad oggi ultimo lavoro.
Edito nel 2013 e anticipato dalle quattro bombe a mano dell'Ep The Return Ov Bleep, Tranklements è il testamento di ciò che i Black Dog hanno rappresentato negli ormai quasi venticinque anni della loro attività. Un disco che mischia le innovazioni di Bytes e Spanners, la recente tendenza al martello e la classe dalla consistenza morbida di Silenced con la naturalezza e la compattezza mai forzata che solo l'approccio live riesce a combinare. Un disco nato per essere suonato, insomma, in grado di fondere già dall'ouverture di “Alien Boys” le liquefazioni analogiche e astrali con un impianto ritmico mai così robusto e virile, pronto a scomporsi sotto forma di proiettili minimal nelle due “Pray Crash” e a fasciarsi di laser taglienti nei nodi ritmici di “Atavistic Resurgence”.
Stavolta, c'è spazio pure per le velleità house-oriented – in precedenza tenute nascoste – di Martin Dust, libero e assecondato nella coppia “Cult Mentality”-“Hymn From So”, prima che la parte finale del disco torni a cospargersi di scie luminose e stelle cadenti, a volte in solitaria (“Internal Collapse” e la conclusiva “Spatches”, unica concessione di stampo ambientale) e altre coadiuvate da un'ossatura possente (“First Cut”, “Death Bingo”) quando non frenetica (“Mind Object”). Da segnalare pure il ritorno alla struttura che aveva reso grande Spanners, con gli ormai classici skit di schegge e rumor bianco (di nuovo denominati “Bolt”) a spezzare il ritmo qua e là.
Mescolando in un solo cocktail il meglio della prima e della seconda fase della loro storia e trattando la miscela ottenuta con suoni moderni quando non visionari, i Black Dog sfornano il loro disco migliore dai tempi di Silenced, il più spontaneo e ispirato. Se il primo era l'ideale vertice della loro nuova formula, nonché l'apice più puro di quella techno astrale forgiata da Downie fin dall'inizio della sua carriera, Tranklements è il culmine di tutti i discorsi affrontati sotto il pluriventennale marchio e al tempo stesso il prodotto più genuino e distribuito del suo incrocio creativo con Martin e Richard Dust.
A due anni di distanza, e dopo aver sparpagliato singoli e 12" (fra cui uno split con Happa) e aver lavorato ad una serie di "mostre sonore" sulla Sheffield dei Novanta (testimoniate da tre Ep), Downie e i fratelli Dust pubblicano nel 2015 Neither/Neither. Il colore principale della copertina pare scelto apposta per delineare il distacco dalla techno liquida e cesellata di dub del predecessore, a cui è preferito un arsenale variopinto di grooves, melodie e architetture sonore a temperatura costante ed elevatissima. Non un vero e proprio back-to-dancefloor, come fu Radio Scarecrow, ma una sintesi tra l'anima più geometrica e intelligent e quella più spiccatamente club-oriented dei tre. Così, i quindici brani inscenano una sorta di otto volante a fasi, che nasce dalla distesa di flussi e armonie in stile Boards Of Canada dell'opener “Non Linear Information Life” per sfociare a sorpresa nelle field recordings urbane di “Phil 3 To 5 To 3”, primo di una serie di interludi chiamati a spezzare il ritmo. L'oscuro mantra al ralenti della title track incrementa la marcia mantenendosi sull'ipnosi andante e dando i primi sfoggi di una classe mai venuta meno, ancor più in spolvero nel ritorno alle geometrie dub-ambient di “Them (Everyone Is A Liar But)” e nell'omaggio velato all'amico Aphex Twin e alla sua “Xtal” di “Control Needs Time”. Il percorso sonoro, impostato per carburare in maniera sfumata ma costante, regala alla prima parte del disco gli episodi più quieti e atmosferici, donando invece alla seconda i prodotti più muscolari e uptempo. Il tutto già a partire da “Shut Eye”, marcetta velenosa intrisa di rumore che impartisce l'ennesima lezione a Perc, per proseguire con la cibernetica (e forse un po' azzardata) “Self Organising Sealed Systems”, vagamente dalle parti dei primi Daft Punk. Il ritmo non cala nemmeno nella più elegante “Commodification”, che strizza più di un occhio alla saga del back-to-Sheffield dell'anno scorso, né tantomeno nel fermento di “Platform Lvl 6”, che muove dalle parti della Ellen Allien pre-sbornia mainstream. “Hollow Stories, Hollow Head” è un'autentica bomba a mano che sfonda le barriere e sconfina in territorio pop, grazie ad una melodia elettronica semplicemente irresistibile, mentre la magistrale conclusione di “MK Ultrabritte” è la ciliegina sulla torta, una cascata di loop stellari in puro stile Orbital che chiude le danze riaffermando lo status di maestri dei tre britannici.
La techno dei Black Dog non è mai però ebbra, figlia di un'ubriacatura o votata al mero intrattenimento: resta piuttosto fra i rari esempi di una musica spiccatamente vicina al dancefloor ma pensata per l'ascolto puro, per una fruizione diretta e consapevole. Lo dimostrano anche le poche ma importanti gemme squisitamente ambientali sparse fra un groove e l'altro, dalla dolcissima e toccante “The Frequency Ov The Truthers”, subito seguita dai droni incrociati di “B.O.O.K.S.” prima del finale pirotecnico, all'ultimo capitolo degli interludi urbani firmati David. Quello che i tre lanciano con Neither/Neither è l'ennesimo messaggio forte e chiaro, con cui dichiarano (e dimostrano) di trovarsi ancora ad occupare un posto sul trono della techno in senso ampio. Non esattamente una cosa da tutti, nemmeno fra i Magnifici di Sheffield.
In grado nel 2015, con alle spalle una carriera lastricata, di portare avanti uno dei percorsi più personali e poliglotti, i Black Dog – assestatisi ormai in maniera definitiva come trio – si confermano fra le realtà fondamentali della musica elettronica. Uno status loro mai abbastanza riconosciuto, sia per il ruolo imprescindibile nello sviluppo del genere negli anni Novanta, sia per il prosieguo – inizialmente precario ma divenuto negli anni compatto e qualitativamente sempre più elevato – del loro personalissimo discorso in ambito techno. Che promette, come testimoniato dalla recente conferma dell'ennesima data al Berghain, di proseguire ancora su un binario di primaria importanza.
Da quando nel 1995 Ed Handley e Andy Turner si allontanarono per dedicarsi ai Plaid, Ken Downie ha orientato sempre più la musica dei Black Dog verso una sintesi tra techno e ambient focalizzata sulla comprensione e sulla critica del presente. Questo approccio viene ulteriormente concretizzato con l’arrivo di Richard e Martin Dust, con i quali Black Dog diventa un potente veicolo di critica sociale tramite un’elettronica potente, che non abbandona le pulsioni techno ma si concentra principalmente a descrivere i paesaggi desolanti degli ultimi 20 anni: da Music For Real Airports, acida risposta al rassicurante, storico album di Brian Eno, nato per smontare la falsa libertà data dal viaggio in aereo in un'epoca di guerre di civiltà e di nascita di nuovi muri; fino a Post Truth del 2018, in cui un concentrato di techno pulsante e beat spezzati si prende carico di criticare ferocemente l’avvento del trumpismoe il suo uso criminale dei social network.
A poco a poco, i Black Dog hanno consolidato l’attitudine ambient e il prodotto sono gli ultimi lavori, per esempio Music For Photographers del 2021, intensa colonna sonora per immagini di luoghi urbani in bianco e nero, per catturarne il grigiore e la cupa atmosfera determinata dall’alienazione che luoghi e strutture create dall’uomo inducono in vite stentate.
Il fatto che Downie sia un fotografo è determinante per comprendere l’esigenza di far nascere un progetto simile, che continua nel 2022 con l'Ep Brutal Minimalism (sempre per la Dust Science). Musica composta in loco durante sessioni fotografiche per sottolineare l’oppressione dell’architettura minimalista dello Yorkshire, brutale perché non lascia spazio alla speranza di poter coltivare la bellezza e spietata perché determina il futuro sociale di chi la abita: “Quattro istantanee per un futuro promesso che tutti meritiamo”. Con i suoi beat frammentati, i sample presi dall’ambiente circostante e le linee di basso potenti, un brano come “Form, Funcion And Friction” è un’evoluzione d’atmosfera dell’Intelligent techno. “Corbusier: Five Points” conferma l’arricchimento del suono rispetto a “Music For Photographers”, con acidi sequencer che squarciano il paesaggio nuvoloso e bagnato di pioggia. “My Brutal Life Of It” ci restituisce una techno iper-minimale in cui imperano glitch post-industriali abbelliti da fasci di luce sonora che elevano un ambiente di per sé oscuro. Fino a “WD23”, concentrato di pulsazioni ambientali in cui la durezza del clangore metallico si unisce al sottostrato vaporoso dei synth.
Dai maestri del suono elettronico ci aspettiamo sempre tanto e la risposta dei Black Dog è nuovamente all’altezza. Ci risveglia dal torpore, ci responsabilizza, ci ricorda che possiamo cambiare un destino segnato.
Il successivo album sotto il marchio Plaid, Feorm Falorx (2022), mostra però come il peso del passato possa offuscare il presente. Perché solo a tratti l’album cattura l’attenzione, passando dalla leggerezza di synth accarezzati al beat contagioso senza scossoni. Troppo facile per una band del loro calibro affrontare gli scintillii degli archi arpeggiati nella iniziale “Perspex”, che sembra un divertimento da sala prove. Troppo leggero il beat di “Modenet” anche se la scelta dei 4/4 rende il brano vivace e pronto per essere remixato e reso potente, mentre quello che gli manca è proprio la profondità. Fino ad arrivare alla vacuità di un pezzo come “Wondergan”, tutto giri allegri e melodiosi facili da creare.
L’album comincia a decollare con le lame soniche di “C.A”, beat ossessivo techno e suoni urbani in crescendo. Ecco cosa ci si aspetterebbe dai Plaid se questa musica avesse senso ancora per generazioni abituate ad ascoltare solo basse frequenze. Certo, è un discorso che interessa poco ai Plaid, che vogliono rivendicare la loro presenza e identità, come testimoniano “Cwtchr” e il suo tempo spezzato circondato da suoni spaziali di synth mai troppo distorti. Siamo nuovamente nella Idm degli anni 90 e non sono sicuro sia una notizia rassicurante anche se i suoni sono piacevoli. Perché è con i brani poco rassicuranti come “Bowl” che i Plaid ancora spaccano, quando abbandonano le ghirlande di suoni stellari e scavano nel profondo di animi inquieti con linee di basso oscure, suoni incombenti e melodie accennate. Non a caso l’album si chiude con “Wide I’s”, un gioco sonoro fatto di intrecci di linee di basso e droni che entrano sotto pelle.
C’è ancora musica sulla strada dei Plaid e se con “Feorm Falorx” non centrano pienamente il bersaglio, l’album è una bella occasione per riscoprire l’elettronica di questi mostri sacri.
Contributi di Luigi Zampi
THE BLACK DOG | |
Cd & Lp | |
Bytes (as Black Dog Productions, Warp, 1993) | |
Temple Of Transparent Bells (GPR, 1993) | |
Parallel (raccolta, GPR, 1995) | |
| Spanners (GPR, 1995) |
Music For Adverts (And Short Films) (Warp, 1996) | |
Unsavoury Products (with Black Sifichi, Hydrogen Dukebox, 2002) | |
Genetically Modified (remix, with Black Sifichi, Hydrogen Dukebox, 2003) | |
Silenced (Dust Science, 2005) | |
Book Of Dogma (raccolta, Soma Quality, 2007) | |
Radio Scarecrow (Soma Quailty, 2008) | |
Further Vexations (Soma Quality, 2009) | |
Ov Mind, Ov Magick (ltd, Dust Science, 2009) | |
Final Collected Vexations (remix, Soma Quality, 2010) | |
Music For Real Airports (Soma Quality, 2010) | |
Liber Dogma (Dust Science, 2011) | |
Tranklements (Dust Science, 2013) | |
Neither/Neither (Dust Science, 2015) | |
Post-Truth (Dust Science, 2018) | |
Music For Photographers (Dust Science, 2021) | |
Ep & 12'' (elenco parziale) | |
Virtual (Black Dog Productions, 1989) | |
Age Of Slack (Black Dog Productions, 1989) | |
Techno Playtime (Black Dog Productions, 1990) | |
Parallel (GPR, 1991) | |
Vir²l (GPR, 1992) | |
Vanttool (GPR, 1992) | |
Peel Session (Warp, 1999) | |
Bite Thee Back (Dust Science, 2005) | |
Trojan Hours (Dust Science, 2005) | |
Remote Viewing (Dust Science, 2005) | |
Riphead (Soma Quality, 2006) | |
Vexing (Soma Quality, 2009) | |
Thee Lounge (Dust Science, 2010) | |
The Return Ov Bleep (Dust Science, 2013) | |
Untitled (split with Happa, Bleep, 2013) | |
Darkhaus Vol. 1 (12", Unterton, 2013) | |
Darkhaus Vol. 2 (12", Dust Science, 2013) | |
Sound Of Sheffield Vol. 1 (FLAC, Dust Science, 2014) | |
Sound Of Sheffield Vol. 2 (FLAC, Dust Science, 2014) | |
Sound Of Sheffield Vol. 3 (FLAC, Dust Science, 2014) | |
Exibit 1 & 2 (MP3, Dust Science, 2014) | |
Brutal Minimalism (Dust Science, 2022) | |
PLAID | |
Cd & Lp | |
Mbuki Mvuki (Black Dog Productions, 1991) | |
Mind Over Rhythm Meets The Men From Plaid On The Planet Luv (with Mind Over Rhythm, Rumble, 1995) | |
Not For Threes (Warp, 1997) | |
| Rest Proof Clockwork (Warp, 1999) |
Trainer (raccolta, Warp, 2000) | |
Double Figure (Warp, 2001) | |
Spokes (Warp, 2003) | |
Plaid Remixes (Parts In The Post) (remix, Peacefrog, 2003) | |
Tekkonkikreet (OST, Ainplex, 2006) | |
Tekkonkikreet Remix Tekkonkikreet (remix, Ainplex, 2006) | |
Greedy Baby (with Bob Jarroc, Warp, 2006) | |
Heaven's Door (OST, Beat, 2008) | |
Scintilli (Warp, 2011) | |
Induction (antologia, Warp, 2011) | |
The Carp And The Seagull (OST, Warp, 2012) | |
Reachy Prints (Warp, 2014) | |
Feorm Falorx (Warp, 2022) | |
Ep & 12'' | |
Scoobs In Columbia (GPR, 1992) | |
Android (Clear, 1995) | |
Undoneson (Warp, 1997) | |
Peel Session (Warp, 1999) | |
Booc (Warp, 2000) | |
P-Brane (Warp, 2002) | |
DADAVISTIC ORCHESTRA | |
Dokument.01 (Ep, ltd, Dust Science, 2011) | |
Dokument.02 (ltd, Dust Science, 2011) | |
Dokument.03 (Ep, ltd, Dust Science, 2011) |
35 Summers | |
At Last |
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