Fino a qualche anno fa, Jakob Häglsperger suonava il basso per i Frittenbude, una band tedesca collocabile a metà tra punk ed electroclash. Il suo amore per le diavolerie elettroniche era già noto all'epoca, per quanto il contesto del gruppo gli abbia sempre impedito di svilupparlo in seno a un percorso di ricerca autentico. E proprio da quest'esigenza nasce Kalipo, progetto passato fondamentalmente in sordina su cui anche noi arriviamo in deciso ritardo e sul quale, c'è da scommetterci, ha influito anche la lunga esperienza del bavarese in cabina di produzione. Ma il fatto è che ne vale la pena, perché questo delizioso “Yaruto” è forse uno dei dischi più emblematici dello stato di quell'arte elettronica, squisitamente contemporanea, a cavallo tra hipstermania post-dubstep (da James Blake a How To Dress Well), alienazione neo-garage su pianeti paralleli (Burial) e nuovo classicismo contaminato di pop in tandem condiviso Idm/minimal-techno (Hopkins e, spiace per chi ancora crede che sia superato, Trentemøller).
La copertina rende alla grande l'attitudine di Häglsperger, quella di un bambino curioso e senza barriere, pronto a gasarsi e a lasciar andare, senza freni, la fantasia. Ecco, il Nostro altro non fa altro se non chiudersi in cameretta, ascoltare parecchia di questa roba, metterci una passione sbocciata non ci è e dato sapere come (quella per il gamelan) e comporre un piccolo saggio di commistione tra elettronica con imbottigliatura 2014 e pop. L'apertura di “Embryo”, strappata silenziosamente qualche isolato più a Nord, in tal senso, è un incipit beffardo quanto squisito - ripreso poi sulla sola “Wilt” - che difficilmente potrebbe far pensare ai colpi di mortaio successivi. La raccolta di gemme è più che mai varia, e lascia le porte spalancate un po' a tutti: “Come” è puro future-garage il cui calore umano aumenta di secondo in secondo, che fa insomma il percorso inverso avvicinandosi all'atmosfera, inquadrata in maniera più definita tra gli scatti di “Take Care Of Your Paradise”.
La title track pesca senza nascondersi direttamente da “Into The Great Wide Yonder” e da lì muove, in direzione curiosamente esotica, il Quasi Folk Development di “Listen To You”: Monaco, insomma, ce la senti anche se non te ne accorgi. Le deviazioni mentali di “Ganja” flirtano col dub e ci infilano quei suoni acquatici deep-techno sui quali gente come Deepchord e Deadbeat (ma, in chiave ambient, anche i Voices From The Lake meritano la loro parte) ha impartito lezioni su lezioni, e che oggi ci ritroviamo ovunque senza nemmeno farci caso. Tutto il disco, in realtà, funge da sostanziale cartina di tornasole, da esperimento importantissimo per far capire cosa farebbe oggi, istintivamente, un musicista rock che volesse flirtare abilmente con l'elettronica.
L'apoteosi però sta nel mezzo, nei dieci minuti maledettamente holdeniani di “Get Rich”: una festa di arpeggiatori in salita e rapida discesa, mulinelli al fulmicotone che danzano sui sicuri accordi del pianoforte, ritmi che si spezzano a vicenda come al laser game.
I postumi del tutto stanno nel finale, nell'inchino senza sottomissione ai primi Autechre di “Cloud Dancing II”, nel contrasto fra sfumature organiche e l'energia divenuta screziatura ritmica velata di noise dopo il cortocircuito. Come fingersi maestri al primo anno di scuola.
17/11/2014