Con la sua copertina verde brillante sfumato per certi versi sorprendente nel contesto storicamente grigio del catalogo raster-noton, “Closing Ice” infila la dimensione concreta nel calderone di Senking. Qualcosa di impensabile fino a qualche tempo fa, tanto che è giusto parlare di compromesso concettuale. Ma è proprio così che nei nove brani del disco torna a sbucare una forma di brio (ancora) cibernetico, di vitalità (comunque) teutonica, quel valore di sostanza che mancava da troppo tempo e che riesce a riabilitare un artista sul cui talento non si discute. Si prenda subito uno degli episodi migliori, quella “Dustclouds” in cui fa capolino addirittura una batteria organica (!) a rafforzare un mantra autenticamente muscolare, tonico, solido, fatto di bassi roboanti e di una furia che (da troppo) mancava. Rieccolo Senking, il mago del bass sound, colui che iniettò pece nera nei contatti limpidi del suo laptop e ora preferisce i synth alla siringa in binario. L'apertura di “Scout And Spies”, che al passato tende la mano nello scheletro ipnotico, è rimpolpata dalle note sparse di un Moog che accennano addirittura a una melodia.
Le rifrazioni multiple di “Serpent” prendono forma col passare dei minuti, trasformandosi in una marziale cavalcata distopica dal retrogusto industriale e dalla marcata carica sci-fi. La marcia gracida di “Grolar” torna a calcare la mano su un dinamismo macchinale che pareva dimenticato in favore di quella stasi che qui trova spazio fortunatamente solo nell'infelice parentesi di “Winter Brevet”. E che viene combattuta a colpi di mortaio, vedi alla voce “Lighthouse Hustle”, altra notevole bomba a mano guidata da una distorsione melodica semplicemente avvincente.
Anche il dub insano e inondato di rumore di “Swarming” colpisce bene, facendo leva sul (facile ma sempre efficace) sentimento nostalgico verso gli anni Novanta e le armonie analogiche di Sheffield. E anche la passeggiata fra ronzii e curve a gomito di “Hitchhicker Perspective”, che parte piano e fa temere la noia, riesce a riscattarsi sul finale, con una progressione viscerale di autentico digitalizzato in grado di paralizzare lungo tutto il finale di “Miller's Meadow”. Quest'ultima suona, infine, come un'(auto)-correzione sul tema del passato recente: finalmente a fuoco, concisa, schietta.
Il disco più concreto, umano e sentito nonché il meno glaciale (il titolo in tal senso è fin troppo esplicativo) e “fedele alla linea” di Senking ne saluta la resurrezione. Plauso al coraggio di variare la propria formula, di aprirla alla contaminazione accrescendone così finalmente il valore assoluto. E (ultima) bacchettata per il cospicuo ritardo nell'intuizione.
(15/10/2015)