I capelli corti piegati all'ingiù a formare un accenno di frangetta, lo sguardo perennemente accigliato ma allo stesso tempo pronto a lanciare un guanto di sfida dritto negli occhi del malcapitato osservatore. Così si presenta un po' in tutte le foto promozionali – copertine di album comprese – Jason Williamson, uno che se nella vita non avesse ostinatamente battuto la strada della musica, ingoiando per lungo tempo i bocconi amari di chi si ritrova in disparte mentre tutti (o comunque molti tra) gli altri si godono il loro posto al sole, avrebbe potuto candidarsi alla parte di uno di quei personaggi infelici ma dall'animo fondamentalmente gentile e tenace che imperversano nei film di Ken Loach.
Per salire sul treno giusto, l'ineffabile Jason ha dovuto costruirlo con le sue mani. Letteralmente inventarselo. Dopo una lunga e tutto sommato infruttuosa trafila nelle band delle East Midlands, Williamson a metà anni Zero abbandona i progetti fin lì imbastiti per iniziare, “un po' per frustrazione e un po' accidentalmente”, a produrre in totale autonomia aggressive elucubrazioni su base musicale attraverso le quali parla a ruota libera della vita privata e di quella lavorativa, con particolare predilezione per gli aspetti più insoddisfacenti di entrambe le sfere.
Nel 2009, al termine di un biennio vissuto a Londra, ritorna nella natia Grantham, piccolo centro nei pressi di Nottingham, e lì forma il progetto Sleaford Mods, nel quale coinvolge ben presto il deejay Andrew Fearn (pure lui con un passato da musicista alle spalle). Questa volta il meccanismo funziona. L'uno si concentra esclusivamente sui testi, l'altro si occupa dell'accompagnamento musicale, per il quale un laptop o una tastiera di fortuna sono strumenti più che sufficienti.
L'unione delle due metà darà ben presto vita a una commistione di parole e musiche schietta e affilatissima, una bomba a orologeria che inizia a fare il giro dei palchi (e degli stereo) di mezza Inghilterra. Le velenose invettive di Williamson, perennemente in bilico tra allucinazioni sconnesse, epiteti sboccati e urticanti denunce da nuovo (suo malgrado?) alfiere della working class, trovano nel contrappunto sonoro di Fearn - scarno nella forma ma trasversale nei generi - il più fertile dei terreni dove sfogare l'irrefrenabile urgenza espressiva in una sorta di auto-terapia (intensiva): il punk con e senza la parola “post” davanti e l'elettronica nella sua accezione più spartana diventano i punti d'appoggio per quei flow irridenti che sconfinano nell'hip-hop e alternano lo spoken word alle strofe cantate.
Il resto è storia recente e ormai (quasi) nota. Con il nuovo decennio arrivano gli esordi su disco stampati in trecento copie, le centinaia di infuocati concerti, e infine le lodi di una stampa specializzata in ritardo ma non per questo meno entusiasta. L'uscita nel 2014 del sophomore “Divide and Exit”, seguita dalla raccolta “Chubbed Up+”, porta il nome degli Sleaford Mods sulla bocca di appassionati e critici nel resto d'Europa e negli States.
I giochi sono fatti, arrivano le collaborazioni con Leftfield e Prodigy, le chiamate dei grandi festival estivi, ma nel frattempo l'improbabile coppia non si ferma. Anzi, rilancia alla sua maniera. Registrato tra l'estate e l'autunno del 2014, “Key Markets” evidenzia la volontà degli Sleaford Mods di spingere ancora più in là i confini del progetto attraverso la progressiva esasperazione dei toni e la sempre più ossessionante verbosità delle liriche, mirando a travolgere l'ascoltatore in una ambientazione che ha il profilo e le tensioni di un sobborgo metropolitano. Il titolo stesso prende il nome dal supermercato che esisteva a Grantham quando Jason era bambino, e che una quarantina d'anni più tardi si erge a simbolo di un capitalismo sadico nella sua ostentata bruttezza.
L'attacco frontale del cantante/oratore - più volte paragonato, e non del tutto a torto, a gente come Mark E. Smith e Shaun Ryder - passa in primis per il sistema politico, chiamato in causa qui con spietato nichilismo e là con perfida ironia, scorre attraverso la descrizione dell'alienazione moderna e arriva dritto all'ambito musicale, mostrando insofferenza per le regole della gavetta (“Live Tonight”) per finire col prendersela con i massimi sistemi.
L'oscuro storytelling di Williamson cambia marcia a seconda del contesto ricreato da Fearn, in un itinerario che appena può deraglia dalla tradizionale forma-canzone per abbracciare una scrittura più libera e imprevedibile. Un itinerario che va a parlare il linguaggio del post-punk più nevrotico nel basso che fa da tappeto a “No One's Bothered” e “Face To Faces”, scivola nel rap con “Bronx In A Six”, sfiora il funk in “Silly Me” e “Tarantula Dead Cargo”, si tuffa nei suoni sintetici di “Rupert Trousers” e “Giddy On The Ciggies”.
“Key Markets” è il ritratto di una personalità sincera e sfrontata, un album senza filtri e dunque autentico come la realtà che racconta, difficile per sua stessa natura. Ma allo stesso tempo il punto più alto, sotto ogni punto di vista, nel cammino intrapreso da una delle più interessanti realtà emerse dalla scena musicale degli ultimi anni.
In un mondo di repliche, gli Sleaford Mods hanno assecondato il loro istinto creativo. E con questo sono arrivati ben oltre i traguardi che loro stessi, con ogni verosimile probabilità, si erano prefissati.
01/07/2015