Con cognizione di causa ma senza orgoglio, dichiaro di essere stato sul punto di gettare la spugna riguardo a Mark Kozelek. Non mi ha spaventato la decisiva transizione (rappresentata da "Benji") da una forma-canzone già molto libera al puro e semplice monologo, un recitar-cantare dal quale sembra non esserci più ritorno. Ho invece avvertito e sofferto, appena sei mesi fa, il cattivo presagio insito in "Universal Themes": vale a dire, il quasi totale abbandono della scrittura musicale - alle soglie dell'automatismo - in favore della più viscerale verbosità, nell'ansia di esplicitare ogni accadimento del diario personale di un (non più giovane) artista.
La recente, frenetica produzione dell'ex-Red House Painters si spiega da sé, e qualora l'interesse sia venuto a mancare è il caso di abbandonarla, dando un chiaro segnale di sfinimento tale da ridimensionare il rinnovato hype per i progetti di Kozelek. Ma se io oggi, domenica 17 gennaio 2016, ore 17.25, sono ancora qui ad ascoltare e a scrivere del suo ultimo album, dev'essere segno che qualcosa mi spinge ancora a farlo.
Il motivo primario (e il più ovvio) è la collaborazione con Justin K. Broadrick, che qui interviene – in realtà solo parzialmente – in veste di Jesu, e del quale Kozelek descriveva efficacemente un'esibizione coi Godflesh in "The Possum". La seconda spinta – non so davvero se per sado-voyeurismo o autentico interesse musicologico – sta nel voler scoprire fino dove un artista può arrivare a mettersi (a seconda dei punti di vista) deliberatamente a nudo o in ridicolo, sostituendo la performance alla conversazione, alla confessione, alla vita stessa d'ogni giorno.
Ciò detto, resta soltanto da accettare che anche questo binomio non ispira al cantautore nulla di diverso dai suoi ultimi dischi, torrenti in piena di ricordi e annotazioni nella forma che a questo punto chiameremo rapping, sempre più per giustezza anziché per convenzione. Il chitarrista incappucciato, d'altronde, ha da offrire perlopiù le sue altrettanto classiche bordate in tonalità maggiore, alternate alle frequenze basse e massicce degli stoppati (quantomai epici nel doom estatico di “Carondelet”). Ma egual spazio trovano gli strumenti utilizzati per gli altri act dello stesso Justin, dalla drum machine alle scie in delay di chitarra pulita e di sintetizzatori – nulla di destabilizzante, finché il piglio fanfarone di “Father's Day” non ha messo a dura prova la mia obiettività.
Vale la pena di addentrarsi nei testi? Qualche nuovo stralcio di vita in tour per tutto il mondo, tra la (a quanto pare sconfortante) esperienza italo-svizzera per il film di Sorrentino e un ozioso day off a Milano, o “on the road from Perugia to Vasto”; l'innegabile fucked-upness di un'America martoriata dall'ennesima strage di innocenti; qualche dolce (più del solito) parola sulla compagna Caroline e su come non vede l'ora di spupazzarsela fino a morirne. Giungono poi due momenti in cui Mark sfrutta i loop serafici di Broadrick per inaugurare l'angolo della posta, leggendo le lettere dei fan di sempre (non come gli hipster che lo amano solo per “Benji”); e questo sì, è stato un po' destabilizzante, conoscendo il soggetto.
Non sono considerazioni dettate da superficialità o supponenza, ma la constatazione dell'eterno ritorno di leit-motiv a causa dei quali Kozelek continua a rischiare di sembrare la smorfia di se stesso. Non ultima la morte, perlomeno chiamata in causa col tatto imposto da un memoriale degno di tal nome: il ricordo di un altro artista defunto, Chris Squire degli Yes, e dell'adolescenza passata ad ascoltare ripetutamente “I've Seen All Good People” vantano un ultimo, pallido richiamo alla delicata scrittura di “Admiral Fell Promises” – come sembrano lontane nel tempo quelle tessiture spagnoleggianti della chitarra classica...
L'unica eccezione davvero apprezzabile giunge con “Exodus”, registrata assieme ai Low e a Rachel Goswell degli Slowdive: l'elogio funebre del figlio di Nick Cave, morto a soli 15 anni, è impostato su un sottile gioco di emulazione vocale, in aggiunta a un pianoforte lento e ieratico, attraverso i quali Kozelek sottolinea efficacemente la vicinanza umana e spirituale a Cave (I'm very much me and Nick Cave is very much 'He', but we're the same that we're both songwriters and we don't stop moving, we're like waves in the sea). E qui non si può davvero celare una punta di commozione, dove qualcuno a ragion veduta potrà finalmente rievocare i toni elegiaci di “Down Colorful Hill”, prima del ritorno alla normalità con la conclusiva “Beautiful You”, chiusa intimista – con qualche altra brutta notizia dall'Ohio natale – aggiunta in extremis alla tracklist, e del tutto simile a "Somehow The Wonder Of Life Prevails", finale a sua volta nel duetto con Jimmy LaValle.
Questo, in breve (sic!), ciò che affiora tirando i sommi capi di altri 80 minuti con Mark Kozelek: perché, siamo onesti, ormai la partecipazione del buon Broadrick risulta come una notarella a margine entro un discorso che di regola procede indisturbato coi suoi tempi, la sua metrica, tra temi ricorrenti e idiosincrasie che a questo punto conosciamo fin troppo bene. Anche qui la richiesta implicita è di schierarsi: o con Mark o contro Mark, l'America's most wanted al quale potete mandare una mail fiduciosi nella speranza che la leggerà o malignamente, nel beffardo tentativo di prender parte al prossimo album.
Di una sola cosa potete esser certi: così come se n'è fregato del voto riservatogli da Pitchfork, lo stesso farebbe se mai capitasse su questa pagina. Senz'ombra di pentimento riderebbe di me, della mia presunta sagacia e del mio insignificante giudizietto. Sempre, di fronte alla sincera determinazione di un artista, gli zimbelli siamo noi.
20/01/2016