Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.
Pensiamoci bene: per quante delle effimere star della musica contemporanea potremmo usare questa celebre frase de “Il giovane Holden”? Per uno come Mark Kozelek non solo vale, ma suona perfettamente in sintonia con il suo nuovo “Universal Themes”, un disco che, nelle sue confessioni buttate giù in una stanza d’albergo, suona come una telefonata notturna a un vecchio amico.
Ma forse c’è ancora di più, in questa nuova vita “sotto i riflettori” di Kozelek, che sembra aver (già?) raggiunto quell’età in cui ci si può permettere di parlare, in musica o no, senza alcun filtro, orchestrando polemiche e invettive anche deteriori, buttandosi in pasto al pubblico, chi lo ama e chi lo odia, chi è geloso perché lo segue da sempre, chi è esaltato da incontrare un nuovo amico con così tanto da raccontare.
Ciò che rimane di questo rumore, di questi pezzi da dieci minuti in cui si può trovare di tutto (o una sua eco, piuttosto), da aperture epico-bucoliche alla “Ghosts Of The Great Highway” agli aulici arpeggi di “Admiral Fell Promises”, senza farsi mancare lo scarno rap depresso di “Benji”, è semplicemente e sempre di più Mark Kozelek stesso: sembra di seguirlo mentre va “con grazia in bagno per piangere”, o appoggiato alla balaustra del balcone della sua stanza d’albergo, fino a quando si ha l’impressione ormai non che sia un amico di sempre, ma di essere proprio lui. Non solo un artista che diventa la sua arte, ma anche il suo fruitore che ne diventa parte, più che in un’illusoria vertigine, in un esasperato voyeurismo.
Il pubblico di Kozelek vuole questo: sapere dov’è stato quest’anno (ad esempio, lo racconta diverse volte, ha girato qualche scena di “Youth”), e lui l’ha capito benissimo, e così i pezzi di “Universal Themes” sono ancora più claustrofobici e ossessivi, lunghe digressioni di eziologia dell’anima in cui il contenuto musicale si esaurisce ben presto.
Ma l’esasperazione di questa autoreferenzialità è ancora proprio uno dei segreti del successo del nuovo Sun Kil Moon, e così questi tratti di “Benji” si trovano amplificati in “Universal Themes”, la scrittura ormai praticamente una base improvvisata coi propri schemi precostruiti, le interpretazioni vocali trasandate e spinte all’estremo, le soluzioni capricciose ed estemporanee.
L’espressione artistica in quanto tale sembra insomma secondaria rispetto all’immagine sciamanica di Kozelek, ormai pericolosamente vicino a essere solamente vate di sé stesso, e di tutti quelli che hanno voglia di prender su la cornetta del telefono per sentirlo parlare ininterrottamente, per ore, fino a quando la sua voce non si confonda con il rumore del mondo. Durerà, questa sorta di ipnosi collettiva? Vedremo.
06/06/2015