Se il precedente “Among The Leaves”, dato alle stampe nemmeno due anni fa, era un attestato di ottima forma melodica cui avrebbe giovato un serio lavoro di editing, le due collaborazioni di Mark Kozelek con Jimmy LaValle e Desertshore mostravano la voglia del musicista di condividere storie in forma nuova e più estesa.
Si può dire, però, che nulla preparasse a “Benji”, sesto album a nome Sun Kil Moon che porta alle estreme conseguenze la tendenza all’oversharing degli ultimi anni, inserita questa volta nel flusso sonoro pienamente compiuto di un parco canzoni notevolissimo. Spogliate di ogni metafora, le parole del songwriter travolgono l’ascoltatore avvalendosi di sonorità esclusivamente acustiche, liberate anche delle ultime tracce di elettricità.
Già dall’attacco di “Carissa” il suono ha la malinconia del ricordo autobiografico, nel racconto del dramma di una cugina che perde la vita in un bizzarro incidente domestico.
Per Kozelek, oggi, non c’è più bisogno di mediazioni letterarie per cantare un fatto del genere; lo esplicita a partire da una strofa in cui il metro si fa libero fino al fantasma di un refrain: “Carissa aveva trentacinque anni, non puoi davvero crescere due figli, portar fuori la spazzatura e morire”. E poi, ancora: “non la conoscevo bene, ma questo non significa che non fossi destinato a trovare un po’ di poesia per dare un senso a tutto questo”. Con la potenza visiva del Terrence Malick di “The Tree Of Life”, perso nello spazio e nel tempo a cercare risposte universali a un dramma personale.
Commossa ode alla madre, “I Can’t Live Without My Mother’s Love” è una splendida dedica alla donna, oggi settantacinquenne, cui l’autore non riesce a immaginare di sopravvivere.
“Truck Driver”, invece, richiama il buio del terzo Cohen, quello di “Songs Of Love And Hate”, con la chitarra pizzicata ad accompagnare una voce scura, vicina all’introspezione in punta di nylon di “Admiral Fell Promises”, qui asciugata delle contorsioni che ne appesantivano lo scorrere. Il lamento che introduce “Dogs” è altrettanto raggelante e l’andamento complessivo del brano non è da meno, folk-rock ossessivo e lineare con un arrangiamento che aggiunge tocchi sparsi a ogni nuova strofa, senza che vi sia ritornello a far prendere fiato; qualcosa che potrebbe far pensare a una “State Trooper” finalmente esplosa e non più solamente maniacale.
Le aperture al mondo esterno sono rare in un album più spesso rivolto all’analisi del proprio vissuto. E’ il caso del folk-blues rauco e lacerato di “Pray For Newtown”, che, paradossalmente, mostra il raffinato gioco intellettuale sotteso a “Benji”: la morte è privata del lato estatico e distante di altre composizioni e viene invece mostrata nella sua veste più efferata, quella delle stragi di Newtown, San Ysidro, Utoya. Incastrato tra un racconto e l’altro di amici e parenti perduti lungo la strada, l’accostamento di questi eventi mette in luce la volontà di rappresentare non semplicemente le riflessioni del singolo sull’assenza e la perdita, ma quella di narrare il dramma di ogni uomo che si trovi a riflettere sulla mortalità.
Così accade anche nella gemella “Richard Ramirez Died Today Of Natural Causes”, nera di cronaca, con un inquietante sovrapporsi di voci fuori sincrono che nel finale solo strumentale si arricchisce della batteria di Steve Shelley e vibra di sinistri riverberi psichedelici.
Le tracce centrali offrono spiragli di luce: “Jim Wise” è nome fittizio per una persona reale e vicina al padre di Kozelek; il battere su tasti arrugginiti e la melodia leggera ne fanno un delizioso quadretto intriso di malinconia per un passato luminoso, come a voler rimuovere le tragedie recenti attraverso istantanee della moglie, colta tra le piante di rosa del giardino di casa. “I Love My Dad” è uno dei pezzi minori del lotto, filante pop acustico che si avvale dei controcanti di Will Oldham (presente in molte tracce). Ironico e svagato snocciolare dettagli del rapporto con il genitore, il brano offre all’uomo il rispetto che merita: “la mia vita non è male e lo devo a lui, mio padre ha fatto il meglio che poteva”.
Su tutto, però, si stagliano due capolavori veri, da aggiungere a un catalogo già straordinario.
Il primo, “I Watched The Film The Song Remains The Same”, raggiunge i dieci minuti, ma per tutta la durata si regge su una forza evocativa degna del miglior Neil Young acustico. Il fingerpicking pittorico e la narrazione intimista sono illuminati dall’ascendere della melodia e da minime aperture corali che compaiono in un paio di momenti.
Kozelek sfrutta il ricordo dello storico film sui Led Zeppelin per una meditazione sulla malinconia che lo accompagna sin da bambino, attraverso le proprie memorie e un ringraziamento a Ivo Watts-Russell, che gli offrì una possibilità con la 4AD ormai più di vent’anni fa. Un finale felliniano, come se il cantante volesse stringere a sé tutte le persone amate o semplicemente incontrate nel corso di una vita.
Il secondo, “Micheline”, lo conoscevamo già da alcuni mesi, ma la magia si è conservata intatta. La bambina affetta da un lieve ritardo mentale che correva a cercare Mark a casa e, quando se ne andava, “sorrideva come se Paul McCartney le avesse appena fatto un autografo”; l’amico Brett, che suonava la chitarra in un modo tutto particolare; la nonna, di nuovo, e la dolcezza sinuosa con cui Kozelek canta quel “my grandma” stringe il cuore quanto la “Granny” di Vic Chesnutt. Un luogo sospeso tra felicità e tristezza, la cui suggestione è consolidata da una pioggerella di pianoforte che non può che commuovere chiunque abbia ascoltato e amato “Here Comes A Regular”.
Infine arriva “Ben’s My Friend” ed è dolce commiato su una delle canzoni più morbidamente pop mai composte dall’autore, che sfoggia un intervento di sax lievemente fuori tono. Ma quello che conta è il complesso di un lavoro splendido, che promette di essere ricordato nel tempo come l’ennesima opera preziosa di uno dei maggiori songwriter degli ultimi venticinque anni.
10/02/2014