Diciassette anni. Tanto dura la vita ninfale e ipogea delle cicale magicicada in fuga preventiva dai predatori, prima di concludersi con una spettacolare quanto incredibile emersione collettiva. Diciassette anni come l'intervallo dall'ultima sortita in studio per i Boss Hog, la band di Jon Spencer e della sua consorte, Cristina Martinez, a tal punto affascinati da questa coincidenza da scegliere di adottare la decima nidiata ciclica documentata di quel particolare insetto come intestazione di un quarto album in studio così lungamente atteso da rischiare di relegarli nel dimenticatoio. Che poi, una licenza dal letargo genitoriale e lavorativo (è direttrice editoriale del magazine Bon Appétit), l'ormai cinquantenne pantera di Washington DC se l'era anche concessa con la parentesi di un tour fra il 2008 e il 2009, occasione in cui era stato imbarcato l'attuale tastierista Mickey Finn, con trascorsi in band soul, a rimpiazzo di Mark Boyce. Da allora nessun segnale fino all'antipasto "Brood Star", Ep licenziato dalla In The Red la scorsa estate.
Lungaggini a parte, non si può peraltro negare ai Boss Hog un tempismo che ha del formidabile. Cristina è apparsa infatti sulla copertina del New York Daily News, immortalata con aria riottosa e cartello "Reject President Elect" durante una delle marce femministe all'indomani dell'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Non pago, il gruppo ha quindi contribuito con un brano ("Save Our Soul") alla compilation anti-Trump curata da Sam Coomes e Janet Weiss, "Battle Hymns".
Diverse delle nuove canzoni presentano una notevole carica polemica e, pur essendo state scritte ben prima del novembre 2016, hanno acquistato una diversa risonanza alla luce del successo elettorale del Presidente "Orange Crush" (l'agente esfoliante, usato ai tempi della guerra in Vietnam, che ha dato il titolo a un celebre singolo dei Rem), come lo ha ribattezzato la Martinez in una recente intervista.
Come l'ultimo album della Blues Explosion, "Brood X" si offre in primo luogo come una riflessione sulla New York in trasformazione degli ultimi anni, quella della gentrification a tappe forzate, pur suonando meno nostalgico e più distaccato di "Freedom Tower". In particolare il taglio tende al caustico quando si guarda all'attuale East Village delle boutique di tendenza, rimpiazzo del quartiere "strano e meraviglioso" delle drag queen, degli artisti e dei musicisti (il territorio di Swans, Sonic Youth e Lydia Lunch, tra gli altri) in cui la band mosse i primi passi, a partire dal mitico Cbgb's che ospitò il suo primo live con un Jon, a quanto si racconta, completamente nudo sul palco. Ma il disco - registrato nell'arco di due anni al Key Club di Benton Harbor, sul lago Michigan, assieme a Bill Skibbe (Fiery Furnaces, Protomartyr, Gooch Palms) - si configura anche come un'articolata e introspettiva riflessione sul matrimonio, sulle lunghe relazioni sentimentali e relative crisi, una materia di cui gli inossidabili coniugi Spencer (coppia da trentadue anni) potrebbero essere docenti.
Siamo molto distanti sia dal trash-pop divertente della precedente uscita su lunga distanza, "Whiteout", quanto dalle contaminazioni funk e blues del loro maggior successo, eponimo, del 1995. Qui va in scena un ritorno al post-punk e all'ombrosa no-wave delle origini, che in "Billy" assume i contorni di un garage-rock adrenalinico dai barbagli stroboscopici: selvaggio, schizoide, denso di inquietudini e più che apprezzabile come risposta agli ideali discepoli (Kills, Yeah Yeah Yeahs e via andando) spuntati come funghi nei tre lustri abbondanti di seggio vacante. Spigoli e ombre sono quelli di sempre, anche negli episodi come "Ground Control", in cui Jon e signora si dilettano con imbronciati duetti. Con impeccabile prestanza ritmica, l'accoppiata Jens Jurgensen/Hollis Queen apparecchia una trama compulsiva in cui si infrattano a turno l'organo di Finn, l'inconfondibile, guizzante e gigionesca chitarra noise-funk di Spencer e il miagolio maligno, talvolta marziale, della frontwoman.
Se la scurissima "Shh Shh Shh", sorta di omaggio a un mito personale (la già citata Lydia Lunch), richiama alla mente proprio la JSBX, "Rodeo Chica" rievoca l'ironico revival rock'n'roll del gineceo di Ian Svenonius nel progetto Chain & The Gang, con il suo ameno dialogo più recitato che cantato. Per l'intonazione torva, plumbea, sincopata, per la visceralità sporca e un tantino morbosa, l'album si mostra coerente nella propria impassibile repulsività; l'esplosività cova sotterranea ma resta trattenuta, ribollente, strisciante. I Boss Hog rifuggono certe pose ammiccanti di ieri preferendo uno standard midtempo a base di deviazioni disagevoli, apparentemente monocordi, un po' come nell'esordio dei Priests all'inizio di quest'anno. Il singolo "Formula X" è la sola concessione alla band più esuberante e ad alto voltaggio del breve frangente di visibilità sotto l'egida del marchio Geffen, ma è pur sempre intonata a un clima di generale cupezza.
Fa in parte eccezione solo la maggior limpidezza atmosferica della rarefatta "17", ballata blues in acustico chiusa (e non poteva essere altrimenti) dal frinire delle cicale, che vede Cristina rievocare l'esatto momento, nella sua precocissima adolescenza, in cui idealmente venne "ingoiata dal rumore".
Diciassette anni, ancora una volta. Speriamo non debbano passarne altrettanti per tornare ad ammirare dal vivo la splendida signora Spencer e i suoi compari.
11/04/2017