Laurel Halo

Dust

2017 (Hyperdub)
abstract synth

Chi ama scrivere di musica, prima o poi, trova una sorta di chiave con la quale poter affrontare anche le situazioni più disparate. Ma Laurel Halo è capace di farti sentire come se tu stessi proprio ballando di architettura. C'è qualcosa di affascinante nel modo in cui "Dust" ti trasporta gioiosamente al di fuori del selciato tipicamente utilizzato per rapportarsi all'enorme massa di musica disponibile nell'era digitale. Ma allo stesso tempo, "Dust" è un compagno capriccioso, instabile e quasi irritante, soprattutto nel momento in cui ti rendi conto che i costrutti tipici e le frasi fatte utilizzabili per una sintetica critica musicale cadono come birilli sul parquet di una pista da bowling. La dialettica di Laurel Halo sta tutta nella sua non-identità, nel suo continuo sfuggire a definizioni di sorta per rifugiarsi in quello che, in definitiva, è lo scopo ultimo di questo suo terzo album ufficiale: fare un gran polverone.

Si potrebbero impiegare mille parole, ma forse è più immediato partire da un brano che, nell'opinione personale di chi scrive, tocca almeno uno dei tanti nervi scoperti dell'intero progetto: "Moontalk". La base si compone di un passo latineggiante, dolcezze chitarristiche in aria di bossa nova e intricate strumentazioni provenienti da un'Africa tribale, vale a dire tutto quello che uno potrebbe richiedere da un ascolto distratto fatto sotto l'ombrellone in questa calda stagione 2017. Ma al pezzo vanno anche aggiunti insistenti mini-punteggiature di synth in modalità eighties, due refrain cantati - uno in lingua giapponese e uno in inglese, quest'ultimo interpretato dalla stessa Laurel - oltre a querule risatine femminili da geisha alle prime armi, e lo sconfortante rumorino di un telefono disconnesso. Sugli ultimissimi dieci secondi, il pezzo innalza una coda ambient gonfia e atmosferica. Se la Luna potesse parlare un linguaggio a noi comprensibile, oltre le maree e le mestruazioni, forse impiegherebbe sonorità come queste.

Alla base di "Dust", insomma, vi è un magma di cangianti astrattismi sintetici che spaziano liberamente da località tropicali al grigio di una warehouse berlinese, città nella quale l'autrice americana risiede da anni. Sfuggente, incongruo e inconcludente sono dunque aggettivi che si fanno colonna portante di un disco come non se ne sentono poi tanti in giro. Al momento della pubblicazione, la sempre un po' defilata Laurel ha usato poche parole a riguardo, accennando giusto al fatto che il processo compositivo e produttivo è durato oltre due anni, un lasso di tempo troppo ampio per poter circoscrivere il lavoro entro un preciso situazionismo emotivo. Il massiccio impiego della voce dell'autrice riporta a "Quarantine", ma per il resto ogni accenno vagamente ballabile, o ascrivibile a uno dei suoi numerosi dj-set Idm, è ora totalmente assente. Solo sull'accecante apertura di "Sun To Solar", e sulla languida traccia lounge/post-dub "Do U Ever Happen" (sulla quale una certa Julia Holter suona il violoncello), le mini-scorribande di synth che accompagnano il tutto possono far pensare al suono tipico di quell'Hyperdub per la quale Laurel incide da anni, ma siamo proprio alla ricerca del proverbiale - e in questo caso calzante - speck of dust.

Anche paragoni con altre musiciste in campo elettronico in questo caso si fanno difficili, e forse è meglio così. Ascoltare l'inebriante singolo di lancio "Jelly" è come stare sott'acqua con una maschera da sub a osservare lo svolgimento a bordo piscina della vita di un villaggio vacanze, e complici anche gli stralunati coretti a cura di Lafawndah, qualcuno potrebbe trovarci addirittura del potenziale radiofonico, non fosse che i nastri ormai inzuppati dal cloro sono troppo mollicci per essere suonati. Stesso discorso per "Like An L", un sollucchero para-tropicale fin troppo astratto per potersi fregiare di aggettivi quali "piacione" o "estivo". Gli ottoni di "Arschkriker" creano poi partiture avant-jazz con vaghi ostinati mediorientali, e lo stesso piglio jazzista viene esplorato anche da "Who Won", un notturno spoken word snocciolato dalla profonda voce di Michael Salu che crea una scenetta da film noir.
Rumorismi e cacofonie sampledeliche accompagnano gli oltre sei minuti di "Syzygy", ma prendono definitivamente piede in "Koinos" e soprattutto nella conclusiva "Buh-Bye", pezzo strumentale che chiude il disco con una nota misteriosamente onirica.

L'ha chiamato "Dust" e ha deciso di rappresentarlo con una foto di copertina talmente umile che ha dell'impietoso, ma plausibilmente il recente spaccato di vita dell'autrice deve essere stato tutt'altro che lineare (oltre al fatto che l'immagine defilata ben si adatta alla tipologia di musicista/producer qui presente - ricordiamo anche i collage di Holly Herndon). Ma l'inebriante cocktail di suoni servito da queste undici tracce si compone solo per un terzo di quel grigiore propriamente polveroso; il resto è un pullulare pluralista di voci e vocoder accelerazionisti, tastiere bislacche e ritmi digitali, osservazioni romantiche di un cielo stellato, spicchi di sole, piscinette gonfiabili e fenicotteri rosa. Una volta ascoltato, assimilato e tramutato in una sorta di rito, sembra riduttivo pensarlo solo in grigio; scusami Laurel, ti scoccia se lo chiamiamo "Stardust"?

31/07/2017

Tracklist

  1. Sun To Solar
  2. Jelly
  3. Koinos
  4. Arschkriecher
  5. Moontalk
  6. Nicht Ohne Risiko
  7. Who Won
  8. Like An L
  9. Syzygy
  10. Do U Ever Happen
  11. Buh-Bye


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