Le nuove superstar della colonna sonora giungono inevitabilmente a confrontarsi anche con il format seriale, di gran lunga il più pervasivo in tv come in rete. A stretto giro è stato il turno di Ólafur Arnalds ("Broadchurch") e del duo Reznor/Ross ("The Vietnam War") e, dopo "The Leftovers" e un breve "cameo" nella terza stagione di "Black Mirror" ("Nosedive"), il capofila neoclassico Max Richter firma interamente lo score per la serie britannica "Taboo", andata in onda su FX a inizio anno.
Lo sceneggiato in costume, ambientato nella Londra del 1814, ruota attorno al protagonista assoluto James Keziah Delaney, scuro e temibile mercenario interpretato da Tom Hardy: dopo dieci anni di oblio in Africa, quando ormai tutti lo credevano disperso, egli torna in patria nello stupore generale per raccogliere l'eredità del padre defunto, circostanza che diviene l'innesco di un rovinoso e inesorabile susseguirsi di faide e cacce all'uomo.
A questo antieroe e al pervasivo mood di stampo gotico della serie, Richter attribuisce un minaccioso tritono - tecnicamente identificato come "diabolus in musica" - sottolineato dal gravore cadenzato dei contrabbassi, sezione che evoca efficacemente la corruzione dell'animo; su questo ostinato gli altri archi disegnano nervosamente un pattern minimalista che aggiunge alla vertigine l'illusione di un moto spiraliforme, corroborata da imponenti muri di ottoni.
Il tema principale ("The Inexorable Advance Of Mr. Delaney") predomina e ritorna in variazioni più o meno agitate, nel mezzo delle quali trovano spazio brevi ma intensi intermezzi composti secondo la secolare forma espressiva del "lamento": una linea discendente che, nonostante l'incedere elegante, comunica inconsciamente un senso di instabilità, come un lento precipitare nell'abisso, nello stile pienamente romantico del pianoforte ("A Lamenting Song") come nel delicato puntillismo dello xilofono ("Taboo Lament", una di due bonus track), sino all'arioso valzer che improvvisamente sospende a mezz'aria la danse macabre.
Di più sicuro effetto la drammatica "Song Of The Dead", canto monodico su un coro spettrale alla Luigi Nono, in seguito controbilanciato dalla impalpabile "Song Of The Beyond", con cui va a formare un dittico "astratto" ed estraneo sia rispetto al cuore dell'azione, ossia l'impeto orchestrale, che al tono melanconico della scrittura solistica.
Nuovamente edito da Deutsche Grammophon, a pochi mesi di distanza dagli estratti del balletto "Woolf Works" di Wayne McGregor, Richter cavalca l'onda del successo con un lavoro tutto sommato didascalico, destinato - per la più parte dei quaranta minuti totali - a non elevarsi oltre il livello di sottofondo che per loro natura quasi tutte le colonne sonore si trovano a occupare.
Ritorna, insomma, il problema ricorrente in molte delle odierne soundtrack originali, spesso inclini al ricalco e di rado foriere di soluzioni espressive coraggiose e innovative. D'altronde, la serie stessa conserva l'impronta delle recenti rivisitazioni shakespeariane prodotte a Hollywood, tanto spettacolari e storicamente fedeli quanto piatte, svuotate della potenza suggestiva delle rappresentazioni teatrali d'un tempo. Tanti ottimi compositori, per non arrischiarsi, spesso rinunciano ad accelerare il passo.
20/09/2017