Tutte le arti sembrano intrattenere un rapporto di forte empatia con l'opera letteraria di Virginia Woolf: la si avverte istantaneamente, al primo contatto invisibile tra le sue pagine e un motivo musicale, un'inquadratura, un gesto coreografico; l'arte, sembra, non ha potuto fare a meno di innamorarsi di una prosa che ha anche molto della poesia, della sua apparente fragilità ma anche della sua forza affermativa, emblema di tutta la scrittura femminile a venire. Sceneggiature teatrali, balletti, romanzi, film e relative colonne sonore: un cortocircuito passionale nutrito dalle parole e dal sentimento malinconico che costituisce la preziosa eredità di Virginia.
La sua voce - quella vera, sommessa e antiquata nel suo accento fin de siècle - si manifesta, in un raro estratto radiofonico, all'apertura del sipario su "Woolf Works", trittico danzato del coreografo Wayne McGregor e musicato da Max Richter, tra le stelle del rinnovato catalogo Deutsche Grammophon. Tre opere come tre mondi: "Mrs. Dalloway", "Orlando" e "Le onde" scandiscono le fasi di una partitura (qui in forma ridotta) che, immancabilmente, va a confrontarsi con l'intenso sodalizio realizzatosi in "The Hours", il premiato film di Stephen Frears con lo score originale di Philip Glass.
L'eco del maestro post-minimalista è, tuttavia, soltanto una sfumatura nella prima parte, più vicina allo stile prettamente neoclassico di "The Blue Notebooks" e "Songs From Before": l'idilliaca promenade "In The Garden" è una sorta di libero preludio cameristico che già racchiude in sé il variegato lirismo dell'opera nel suo insieme, mentre il funereo "War Anthem" torna al passato recente del maestoso "Sleep", tra ampie stratificazioni di archi riverberati.
Memory is the seamstress, and a capricious one at that. Memory runs her needle in and out, up and down, hither and thither. We know not what comes next, or what follows after. Thus, the most ordinary movement in the world, such as sitting down at a table and pulling the inkstand towards one, may agitate a thousand odd, disconnected fragments, now bright, now dim, hanging and bobbing and dipping and flaunting, like the underlinen of a family of fourteen on a line in a gale of wind.
Il passo che introduce la sezione dedicata a "Orlando" è l'innesco di un'orchestrazione che ne costituisce la replica sinestetica: un dinamico pizzicato, arcaico elemento di segmentazione melodica, viene accentuato da una rapida intermittenza digitale del suono, tale da trasformare "Modular Astronomy" in una suggestiva mareggiata puntillista; lo stesso, più avanti, in "Persistence Of Images", in relazione a un
largo che si rende del tutto sconnesso e impalpabile, scomparendo quasi tra i silenzi improvvisi.
In seconda battuta Richter sembra voler avvicinare il
crossover elettronico di
Nils Frahm, dapprima con un synth lunare le cui note vengono disperse nello spazio acustico ("Entropy"), poi con un rapido arpeggiato che, assieme a un più essenziale xilofono, diviene l'infallibile segnatempo su di un tappeto ambientale ("Genesis Of Poetry"). Due ulteriori tributi alle sonorità contemporanee, seppur brevi, li ritroviamo nell'ostinato di "Transformation" (un ritorno al "suo"
Vivaldi) e nelle sincopi squadrate di "The Tyranny Of Symmetry", al 100% eredità del
Nyman più rigoroso.
La fase di maggiore impeto creativo si estende sino al momento in cui il rumore del mare che si infrange sulle sponde annuncia la lunga
suite conclusiva, "Tuesday": un epilogo che alcuni definirebbero prevedibile per la riproposizione integrale del manoscritto che la Woolf lasciò al proprio compagno di vita, poco prima di annegare volontariamente nel fiume Ouse.
[...] I am doing what seems the best thing to do. You have given me the greatest possible happiness. You have been in every way all that anyone could be. I don't think two people could have been happier 'til this terrible disease came. I can't fight any longer.
Come un riflesso incondizionato nei confronti di uno scenario di assoluta ineluttabilità, le dita di Richter ripetono tre note d'organo che evocano la profezia in coda a "Koyaanisqatsi", finché l'intera orchestra non si fa progressivamente strada, guidata dal canto di sirena del soprano Grace Davidson, in un enfatico climax che per diversi minuti sposta sempre più in alto l'intensità d'esecuzione dell'organico, sino al coronamento degli ottoni in una solenne fanfara d'addio.
Tanto apprezzata dal grande pubblico quanto invisa ai melomani d'ogni età, la scuola modern classical riafferma ogni volta la propria sensibilità narrativa e la versatilità di una scrittura che, nella sua relativa semplicità, può dialogare spontaneamente con tutte le altre forme espressive. Nel caso di Max Richter, la limpidezza della scrittura va sempre più di pari passo con la ricerca di contaminazioni che ne caratterizzino pienamente la contemporaneità, e in tal senso le musiche per "Woolf Works" segnano forse il suo traguardo più maturo raggiunto sinora.
03/02/2017