UDDE

The Familiar Stranger

2017 (PNR Digital Media)
synth-pop

Antefatto, o prequel se vogliamo prendere in prestito il linguaggio cinematografico.
Anno di grazia 1980, succede tutto nella perfida Albione: John Foxx, leader carismatico dei seminali Ultravox, decide che ne ha abbastanza della band e d'ora in avanti farà da solo. Si spostano le pedine e Midge Ure arriva alla corte di Billy Currie e soci, senza che questo significhi la fine artistica o comunque un innocuo easy listening, a dispetto di quanto affermano tutt'oggi molte vedove inconsolabili della Volpe di Chorley. Dal canto suo, Gary Numan dopo il clamoroso successo di "Replicas" pensa bene di licenziare i suoi Tubeway Army e prosegue imperterrito verso una clamorosa trilogia synth-wave.
Sardegna, anno (meno) di grazia 2017... ma non lamentiamoci. Un restauratore archeologico del circondario di Sassari, dopo la fine dei Solyand Green, gruppo progressive di cui aveva fatto parte per una decina d'anni, è convinto che non valga più la pena condividere idee e oneri (che gli onori sono pochi, specie per chi vive su un'isola) con altri musicisti, e decide di interagire soltanto con le macchine. Non prima di essersi dotato di un nome d'arte che rimanda tantissimo alla terra d'origine.
Il risultato, visto dalla prospettiva di un "waver doc" o di chi comunque con quella musica ci è nato e cresciuto, come chi scrive, è un tuffo al cuore e panacea per le orecchie. E pure balsamo, se volete.

UDDE esordisce così con un disco, "The Familiar Stranger", che si muove all'interno di coordinate ben precise e non contestabili. "Metamatic" e "The Garden" di Foxx, gli Ultravox 2.0 di "Vienna" e "Rage in Eden" con ampie spruzzate di Visage e la trilogia "Replicas/Pleasure Principle/Telekon" dell'alieno Numan sono gli architravi da cui l'artista parte per dare forma a undici episodi di musica sintetica, a volte glaciale, a volte più calda e sensuale, ma mai banale. Un album di new wave elettronica dichiaratamente mitteleuropea, e quindi meno influenzata dai cosiddetti maestri d'oltreoceano, Devo, Cars e Chrome tra gli altri.
L'apripista (scelta perfetta) "Same Old Song" racchiude l'essenza stessa dell'album in quello che è probabilmente l'episodio migliore, perché negli splendidi cinque minuti iniziali sono presenti tutti i dettami stilistici del genere. E così a far compagnia a una melodia riuscitissima (perché senza avremmo di fronte solo un mero esercizio di stile) troviamo linee di synth potenti e glaciali che si sovrappongono e rimandano agli algidi e luminosi riff di "Metamatic", insieme a linee di piano più delicate e atmosfere più eteree alla "The Garden". Nella suggestiva coda finale, con i cori che via via si aggiungono ai suoni percussivi e alla ritmica, si ricreano magicamente quelle atmosfere decadenti e malinconiche che poi rappresentano il marchio di fabbrica della new wave. E riuscire a fondere così magistralmente le due diverse anime del primo Foxx solista non è certo facile e scontato.

E se il contesto in cui ci si muove è quello sopra evidenziato, non sono ovviamente esclusi echi e rimandi al quel techno-pop che a inizi degli anni 80 prendeva piede in modo deciso, sbaragliando la concorrenza e riempendo i dancefloor. D'altra parte, la summa della filosofia consociativa andreottiana non era forse "perché escludere quando si può aggiungere?"? Ecco che così il Sylvian più "japanese" fa capolino nelle timbriche vocali di "Facelift" e la più riflessiva "Wait" sembra provenire direttamente dagli Omd più crepuscolari di "Organisation".
Qualche analogia, se vogliamo, possiamo ritrovarla negli Hurts, ma lì a parte che il discorso era più sbilanciato verso il pop elettronico di matrice Depeche Mode più melodici e primi Tears For Fears, si trattava anche e soprattutto di un'abile operazione di marketing costruita a tavolino da discografici e fior di professionisti per creare un hype e sfondare commercialmente.

C'è più poesia e genuinità in questa che è e rimane, a dispetto dell'ottimo risultato conseguito, una produzione casalinga, una sorta di artigianato musicale dove l'artista scrive, suona e produce, tra sorelle fotografe/modelle che si occupano del booklet, del design e posano per la sleeve. Da qui appunto il titolo dell'album, utile anche per comprendere il contesto sociale in cui sono nati i testi, che parlano di piccole storie quotidiane, di personaggi che puoi incontrare in casa o a bar, piccole istantanee di vita vissuta in qualche piccolo centro o all'interno di un insospettabile nucleo familiare dove la realtà è ben diversa dall'apparenza.
In questo il songwriting è molto attuale, ma non sono tanto i testi - sicuramente ben curati e funzionali alla musica - a rendere "The Familiar Stranger" un bell'album, quanto la capacità dell'autore di dar vita a belle canzoni capaci di risplendere sia nella melodia che nella struttura sonora, che poi in sostanza è quello di cui ha bisogno una pop song per non passare inosservata.
Un disco che può tranquillamente essere collocato, nell'ambito di una discografia wave che si rispetti, nello scaffale non lontano dai succitati maestri, senza alcun imbarazzo.
Listen without predjudice, diceva qualcuno (op. cit. George Michael), e... enjoy it.

20/05/2017

Tracklist

  1. Same Old Song
  2. One Heaven
  3. Facelift
  4. Tough Girls
  5. Wait
  6. Gloomy Friday
  7. Our Boundaries
  8. Summertown (And the Living Deseases)
  9. Neighbour
  10. The Bridge Carousel
  11. Supermarket

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