Gli Hurts si presentarono al pubblico tre anni fa con “Happiness” e non ci sono dubbi sul fatto che Theo Hutchcraft e Adam Anderson all’epoca fossero effettivamente felici: entrambi reduci da passate esperienze musicali non propriamente memorabili, trovarono la giusta formula realizzando un buon disco, in grado di coniugare il pop da classifica con le sonorità più ricercate della scena alternativa. L’immaginario fece il resto, con un’eleganza retrò curatissima, basata, come del resto la loro musica, sugli scintillanti anni Ottanta. Il grande successo ottenuto, specialmente nei paesei dell’Est Europa, li ha portati a passare alla Sony, con la quale hanno realizzato “Exile”.
Tre anni dopo i toni si sono fatti più cupi, com’è intubile già dalla scelta del titolo, ma la proposta del duo mancuniano poco si distanzia da quella del loro primo capitolo. La title track posta in apertura sembra darne conferma: come per “Silver Lining” allora, anche per “Exile” oggi il riferimento è ai Depeche Mode più attuali, anche non volendo riproporre le similarità fra la voce di Hutchcraft e Gahan. E finché si rimane almeno entro i confini marcati da Gore e soci, tutto sembra funzionare egregiamente: “Cupid” con il suo riff totalmente eighties e “The Road”, ispirata dal libro apocalittico omonimo di Cormac McCarthy, sono lì per dimostrarlo.
Cosa si è perso dunque per strada? Probabilmente quella volontà di conquista dell’ambiente mainstream con singoli meno allineati al sentire comune, com’era stato per “Happiness”. La produzione di Dan Grech-Marguerat (Kooks, Vaccines, Lana Del Rey, Keane) ha tirato a lucido un lavoro già extra-patinato di suo: il singolo “Miracle” punta dritto alle arene e alla conquista delle radio, ammiccante con i suoi cori dal sapore Coldplay-diano alla “Mylo Xiloto” e sospinti dalla vigoria dei synth.
I grandi spazi devono essere ormai l’idea fissa degli Hurts, che replicano la formula in “Somebody to Die For”, costruita sviluppando il concetto di epicità promosso dallo (s)fortunato “The 2nd Law”. Desiderio di grandezza ancora più evidente in “Heaven”, contenuta nella versione deluxe dell’album, dove le lente linee synth-etiche sembrano essere funzionali unicamente alll’esplosione del chorus centrale, di cui non fatichiamo a immaginare la riproposizione unisona live. A battere questo terreno il rischio di un brutto scivolone è spesso dietro l’angolo: “Sandman”, con il suo infelice accostamento r’n’b/cori infantili, sopra al tappeto intarsiato dalla drum-machine, sta lì a ricordarcelo. Se poi a poca distanza ci si imbatte in una pop-song come “Only You”, il cui richiamo ai migliori Roxy Music non rimane di certo inascoltato, viene naturale chiedersi quale sia la vera anima dei due posh boys inglesi.
Accantonati per certi versi i Tears For Fears, molto meno Bryan Ferry e molto più Matthew Bellamy, gli Hurts realizzano un disco che deluderà chi vedeva in Theo Hutchcraft e Adam Anderson i possibili nuovi alfieri in grado di riportare in auge il movimento new romantic. Questo non significa che non sia un disco riuscito, almeno negli intenti di chi lo ha composto: magari eccessivamente “studiato” sì, su questo il dubbio ci rimane.
22/03/2013