Il processo di maturazione di una persona non procede mai in maniera lineare, piuttosto assume la forma di un groviglio inestricabile, in cui pieghe di un passato dato per lontano tornano a riflettersi sul presente nel momento più inatteso. Un continuo contorcersi, deviare e ripresentare il conto, nella sostanza, da cui nessuno riesce ad esimersi; è ben più difficile in realtà trovare qualcuno che decida di sfruttare questo presupposto a tema portante di un suo lavoro, per metterne in luce l'impatto dal punto di vista sia artistico che di vita. Analitica, a dire il vero, Alela Diane Menig lo è da molto tempo: di certo, nelle strazianti riflessioni che hanno accompagnato l'imponente “About Farewell”, si otteneva il ritratto di una persona incredibilmente lucida anche a seguito del fallimento di un intero progetto di vita, capace di razionalizzare la propria emotività e di leggere nel profondo delle situazioni, a prescindere dal prezzo da pagare. Cinque anni dopo, con una situazione affettiva decisamente più stabile e due figlie ad averla accompagnata nella vita genitoriale, la cantautrice del Nevada non ha perso nemmeno lontanamente la scintilla dell'ispirazione e l'abilità di auto-analisi, limitandosi a spostare il suo obiettivo su temi per lei ben più stringenti ed essenziali.
In un sesto album nel quale il peso delle parole talvolta oltrepassa quello della controparte musicale (comunque modificata in maniera netta e decisa, a favore di una cornice sonora ben più articolata e composita), con una posatezza espressiva che mette in luce tutta l'esperienza acquisita, l'autrice si interroga sulla maternità e sulle responsabilità dell'essere genitori, adottando prospettive sempre diverse e riflettendo sul duplice ruolo madre/figlia, senza sconti o pillole indorate. Per chi poteva prevedere un ammorbidimento nella proposta, dovrà riconsiderare insomma molte delle sue impressioni.
Desiderata e temuta allo stesso tempo, quasi si trattasse di un intervento divino, la maternità vista dagli occhi di Menig è tutt'altro che rose e fiori, fate e magia. Non che nella narrazione dell'autrice, affidata a parole semplici ma incisive nel loro trasporto evocativo, non vi sia spazio anche per la tenerezza e una maggiore delicatezza lirica, vero è che ad affiorare è piuttosto la difficoltà insita nell'essere genitori, i rischi e la fatica che ciò comporta. Ed è anche per dare enfasi all'esigenza poetica dei testi e delle interpretazioni, che il comparto strumentale, per quanto vibrante e insolito, quasi retrocede, opta per un ruolo apparentemente secondario nel coinvolgimento e nella strutturazione dei brani. Apparentemente, per l'appunto, dacché il cambio non è di quelli che si possono dimenticare: ben più che nel fitto dialogo con la sua amata sei corde, per Alela Diane questa è la volta di comporre col supporto del pianoforte e di un sofisticato comparto di archi e strumenti a fiato, in un'ottica maggiormente improntata al collettivo ma allo stesso tempo capace di rafforzare l'intenso impianto personale della narrazione.
Non che manchino ritorni a certe soluzioni più ruspanti e “weird” in linea con il passato remoto dell'artista (“The Threshold”, saggio di folk spazzolato e dalle nuance psichedeliche, impreziosito dagli spunti di flauto dell'amica Heather Woods Broderick), o qualche puntata in territori più elettrici (il passo valzerato di “Buoyant”, giocato sui lievi mormorii di chitarra e sul tocco gentile delle percussioni), tuttavia sono semplici deviazioni da un'estetica sonora ben più rigorosa, talvolta addirittura austera, deviazioni che nella sostanza confermano una regola diversa, più vicina a una personale interpretazione della classicità che altro.
La tragedia dei migranti siriani funge da catalizzatore per uno dei momenti più alti nella carriera di Menig, una “Emigré” in cui la ferocia del mare in tempesta e la libertà degli uccelli marini in volo fungono da riquadro entro cui circoscrivere lo strazio infinito delle madri che hanno perso i loro figli nella tormenta, in una personificazione totale che abbraccia il loro dolore in un unisono collettivo, senza distinzione alcuna. “Song For Sandy”, sostenuta dalle acute orchestrazioni di Ryan Francesconi (già supportato nel convincente “Cold Moon”), entra invece più nello specifico della situazione e si incentra sulla figura di Sandy Denny e sulla sua travagliata maternità, culminata con la morte a poco tempo dalla nascita della figlia Georgia. Dinamiche ascese di archi e mellotron, abbinate a una linea severa di pianoforte, contrassegnano un'articolata riflessione sulle conseguenze della dipartita della figura materna, affrontata con una disarmante crudezza, necessaria per non cadere nel pietismo: un ribaltamento di prospettiva tutt'altro che semplice, per una come Alela Diane che ha rischiato di non vedere la luce del giorno.
Non tutto chiaramente narra di situazioni così estreme, ma ad accomunare ogni verso, ogni parola è una sensazione di consapevolezza, di saggezza acquisita che si ripercuote anche sui dettagli più insignificanti: la conclusiva “Wild Ceaseless Song” prova a elaborare in musica il ritrovato rapporto con la madre e la relazione con la figlia maggiore attraverso il dualismo genitore/figlio della stessa autrice, in quel senso di continuità al femminile che ha contraddistinto la sua famiglia. “Ether & Wood”, con la partecipazione delle First Aid Kit ai cori, adotta una triplice prospettiva temporale (enfatizzata dal breve ritornello, variato di un solo avverbio ad ogni ripetizione) nel chiudere definitivamente col divorzio e abbracciare appieno la nuova vita genitoriale, salutata in tutta la sua prepotente diversità; non poteva che essere questo l'apice emotivo del disco, il momento in cui l'abbandono interpretativo si fa pieno, a testimonianza dell'avvenuto cambio di scenario.
Se comunque il nuovo percorso di vita è tutt'altro che semplice, con nuovi pericoli e preoccupazioni a sostare dietro l'angolo (“So Tired”, ben sostenuta dal particolare taglio melodico e dal doppio trattamento vocale, non potrebbe esplicitare meglio il concetto), nondimeno la maturità della musicista è tale da consentirle di affrontare ogni ostacolo con la dovuta forza e serenità. Il tocco forse sarà più sommesso, meno viscerale rispetto alle prove precedenti, ciò non toglie che il calibro di Alela Diane sia tale da impedire ogni sorta di appiattimento o banalizzazione tematica di sorta. In un mare di cosiddetti dischi della maturità privi di ogni stimolo, la songstress statunitense non fa sconti a nessuno, in primo luogo a se stessa.
15/03/2018