Di fronte ad un esordio come quello delle Goat Girl scatta una serie di meccanismi critici e cerebrali alquanto complessi. Come si può infatti negare un credito e un’attenzione superiore alla norma a una band che ha avuto il beneplacito del compianto Mark E. Smith dei Fall, o per la quale la stampa ha tirato in ballo paragoni altisonanti e imbarazzanti (Throwing Muses, X, Television, Gun Club, Libertines, Elastica e perfino Syd Barrett)?
Con diciannove brani (tra i quali cinque interludi strumentali), che solo in due casi superano i tre minuti, e un rigore stilistico (pop-punk, blues, rock’n roll e country) che predilige toni asciutti ma mai forzatamente aspri, tutte le aspettative sembrano essere soddisfatte. Quello che emotivamente è infatti lecito chiedere a una formazione post-punk contemporanea è preservare quell’essenzialità armonica e strumentale che fa tanto chic & cool. La cosa veramente sorprendente dell’esordio delle Goat Girl è che, al di là delle premesse intellettuali, riesce a rappresentare la realtà giovanile inglese con un linguaggio onesto, autentico e artisticamente notevole.
È un manifesto generazionale ricco di risvolti sociali e personali, musicalmente inquieto ed avvincente. Ogni brano scaturisce da un’idea potente, da un’elaborazione fisica e mentale intensa: sono infatti canzoni più congeniali alle logiche della no-wave o della rivoluzione post-“Rain Dogs” di Tom Waits (“A Swamp Dogs Tale”, “Moonlit Monkey”, “Hanks Theme”).
Ogni tassello è prezioso e autentico come un pezzo di un mosaico, la versatilità timbrica della voce di Clottie Cream, il suono primitivo della batteria di Rosy Bones, gli assoli quasi country-psych di Ellie e il ronzio del basso di Naima scandiscono i tempi e i luoghi di un album che vuol essere una piccola guida “non turistica” nella realtà della parte più a sud di South London.
Facile innamorarsi dello stralunato dandy-punk di “The Man With No Heart Or Brain”, o del caos à-la Fall di “Little Liar”; ancor più semplice restare ammaliati dal country-punk quasi rockabilly di “Slowly Reclines” e dalla fraudolenta dolcezza di “Burn The Stake”, ed è inutile resistere alle languide e ruffiane sonorità di “Tomorrow” (cover di un brano della colonna sonora del film “Piccoli Gangsters”).
Le Goat Girl non mirano al cuore dell’ascoltatore, ma alla sua pelle e ai suoi nervi: quello che raccontano nel loro esordio non è un romanzo o una storia a lieto fine, sono solo racconti e divagazioni tra amiche che sentono il peso ingombrante della vita urbana. C’è un’urgenza emotiva che non può attendere le logiche della maturità e dell’esperienza, la musica e le parole sono ora limpide (“Creep”) ora caliginose (“Viper Fish”), in quanto frutto di un realtà sociale in preda a una dicotomia, la stessa che anni fa tentarono di mettere in musica Butthole Surfers, Cramps e Chrome, e che in tempi recenti i Fat White Family hanno rimesso al centro delle loro distorsioni pop-psych.
Resta comunque un album difficile da comprendere fino in fondo, “Goat Girl”: le tracce si susseguono come se fossero scampoli di canzoni abbandonate a metà, come se le autrici fossero in preda all’indolenza della depressione o al nichilismo pre-revoluzione.
Il fulgore di brani come “I Don’t Care Part 2“ e “Country Sleaze” è altresì indice di una lucidità e di una disinvolta padronanza creativa, che si traduce in una poetica punk viscerale e autentica. Niente trucchi ed effetti speciali per una musica che mette ordine in un racconto generazionale nel quale rabbia e speranza sembrano avere ancora un senso.
15/05/2018