Sull’assolata copertina del loro debut album, i Parcels sono travestiti da equipaggio aereo: due piloti baffuti e abbottonati e tre biondissimi, scapigliati facchini in tuta celeste intenti a imbarcare le ultime valigie, distratti da una figura femminile fuori campo. Uno scatto divertente e colorato che la dice lunga sull’attitudine giocosa, leggera di questi cinque giovani aussie, ma anche sul lungo viaggio che li ha portati a questo delizioso esordio per Kitsunè. Patrick, Noah, Jules, Louie e Anatole sono andati a scuola insieme in quel della Byron Bay, che però hanno lasciato tutti insieme e molto presto, per tentare una carriera nella musica dance in quel di Berlino, città di artisti e libertà, capitale ideale della techno.
Da Berlino a Parigi è un passo, soprattutto con un suono come quello degli australiani, che trasuda francesità da ogni battito. Per prima arrivò la firma per un’interessatissima Kitsunè, poi, subito dopo il primo Ep, l’interesse di, udite udite, Thomas Bangalter e Guy-Manuel De Homem Christo. Con un singolo prodotto niente poco di meno che dai Daft Punk, la scoppiettante “Overnight”, un hype considerevole e spaventoso viene da sé. Gli australiani lo hanno però affrontato con coraggio e una discreta dose di faccia tosta. Tosta quanto basta per lasciare fuori dalla tracklist un singolo come “Overnight”.
Ma cosa contengono questi pacchi che così tanto hanno viaggiato prima di raggiungere le nostre case e casse? Sicuramente un’ingente dose di funk pop, le cui ritmiche spigolose ma fluide dettano il passo mediante la chitarra singhiozzante di Crommelin, uno che in camera deve averci appeso il poster degli Chic. Ma anche tanto altro. Patrick Hetherington e Louie Swain sono i più “francesi” del gruppo, sembrano aver studiato ogni millimetro dei morbidi incroci di sintetizzatori di “Moon Safari”, la cui ombra torreggia sulla lunghissima “Everyroad”. Una suite dall’evoluzione quasi prog che spinge il funk dei quintetto verso il cielo, propulso da un incalzante pianoforte house e dai cori angelici.
I brani meno danzerecci sono da ascrivere al pop radiofonico più sofisticato, rimembrano infatti nome del calibro degli Steely Dan o, per rimanere in Francia e ai giorni nostri, dei Phoenix. Canzoni dolci e vagamente malinconiche come “Whitorwithout” e “Bemyself”, intonate da Jules Crommelin con la sua voce calda, non solo ricordano il suono della band di Versailles ma anche il timbro di velluto di Thomas Mars.
Il quintetto non poteva però mancare di imballare anche qualche souvenir dalla natia Australia, rappresentata dall’onnipresente sapore di mare di mare che aleggia perenne tra le note delle tastiere, sempre morbide, come levigate dalla risacca. È marina anche la brezza dispersa dai piacevolissimi interventi del flauto, vero e proprio trademark della band, che increspa i finali di “Lightenup” e “Tape”.
L’atmosfera gradevole e attraente di “Parcels” sta tutta nella chimica che questi vagabondi riescono a creare tra elementi naturalmente discordanti: le piste da ballo degli anni 70, quelle di qualche anno fa, l’elegante elettronica di fine millennio, la melanconia dei tramonti nel mare sul finire dell’estate. E’ una malia zuccherina che percorre il disco nella sua interezza, ma che può vivere anche di episodi. La sopracitata “Lightenup” o “Tieduprightnow”, ad esempio, sono due bombe che se le radio giuste se ne accorgono possono fare stragi.
26/10/2018