Superate due o tre fasi nel loro ventennale ciclo di vita, i membri stabili rimasti fedeli alla creatura Supersilent sembrano aver ottenuto l'accesso riservato a un dominio espressivo fuori dal tempo e dalla storia della musica. Ma non esiste un metodo collaudato e replicabile per entrarvi: apparentemente, soltanto il completo oblio di sé e dell'identità dei propri strumenti è in grado di far scorgere sentieri mai battuti prima, ove la descrizione di possibili realtà parallele risulta addirittura spontanea, e in ogni caso necessaria.
Arve Henriksen, Helge Sten e Ståle Storløkken, pur rispettando i numeri progressivi che identificano i capitoli del loro catalogo, continuano a recuperare sessioni registrate ormai quattro anni fa: citando Haneke, “frammenti di una cronologia del caso” rimessi arbitrariamente in sequenza per conferire l’aspetto di un macro-sviluppo narrativo a una ricerca che invece, da sempre, ha spaziato in assoluta libertà tra una cieca furia avant-jazz e il più ermetico riduzionismo elettroacustico.
Persino in un range espressivo così ampio e sfuggente, le dodici tracce raccolte in “14” fanno l’effetto di soundscape quantomai alieni e inconoscibili, talvolta al limite accostabili ai sinistri e opprimenti design del Lynch di “Eraserhead” e alle successive fascinazioni darkjazz con Badalamenti, ma con proprietà tanto evocative quanto rigorosamente a-descrittive nel plasmare atmosfere dense in cui ritrovarsi immersi in pochi istanti – e spesso per una durata inferiore ai tre minuti.
Ancora soffusi e relativamente lirici i primi passi, con la tromba a mo’ di guida tra la fitta nebbia delle tastiere, e quasi in solitaria nel quarto. “14.5” segna il passaggio in un girone più solenne e gravoso, decisamente prossimo alla composizione dark-ambient ben familiare a Helge Sten (Deathprod), e che in seguito ritorna sulle inquiete traiettorie sci-fi introdotte nel capitolo “6” della serie, fin quasi a rinverdire gli echi sacrali dell’organo di Messiaen (“14.10”, “14.12”).
Frequenze distorte e discrete modificazioni elettroniche turbano la superficie sonora in maniera a volte quasi impercettibile, seguendo una logica trasformativa anziché additiva nell’economia degli elementi in gioco: una formula di matrice essenzialmente elettronica che ancora una volta incarna il lato più esoterico dell'espressività di Henriksen, oggi principalmente impegnato in formazioni che contaminano il jazz contemporaneo con la neoclassica e il folk.
Paradossalmente (ma neanche troppo), l’impossibilità di razionalizzare la musica a marchio Supersilent rimane il suo inscalfibile punto di forza, resistente a qualunque metamorfosi. Riuscire a essere così trascinanti – e con assoluta pregnanza – nell’arco di pochi minuti per volta, ancora non trova paragoni in alcuna area della musica sperimentale. E a vent’anni dagli esordi è qualcosa che, giustamente, incute un crescente timore reverenziale.
04/10/2018