Il primo album del giovane artista australiano Troye Sivan, “Blue Neighbourhood”, è ormai diventato un classico di riferimento per gli adolescenti Lgbt e la cultura queer, almeno nei paesi anglofoni. Se si torna all’epoca della sua pubblicazione, sul finire del 2015, ci si accorge tuttavia di come la stampa alternativa l’abbia ignorato. Le uniche recensioni arrivarono da riviste di stampo generalista. La diffidenza delle firme specializzate fu probabilmente dovuta al personaggio: si trattava infatti dell’ennesimo youtuber che trasmetteva video dalla sua cameretta, e il cui impegno musicale rischiava di risolversi in un progetto collaterale, diluito in una carriera da intrattenitore sui social network. I precedenti in tal senso erano tanti, la maggior parte dei quali effettivamente irrilevanti. Neanche il contratto con la Universal e uno sforzo produttivo di tutto rispetto bastarono a far vincere le riserve.
In seguito “Blue Neighbourhood” ha superato il milione di copie vendute nel mondo. Nella settimana in cui raggiunse la top 10 americana, in mezzo a pop grossolano, trap rap aggressivo e dive del pacchiano, la sua musica vellutata tendente all’indie-pop più etereo figurava come un pesce fuor d’acqua. Da quel momento Sivan ha vissuto in un sogno.
Taylor Swift,
Ariana Grande e
Dua Lipa si sono tutte dichiarate sue fan, Martin Garrix l’ha voluto per cantare in “There For You”, il film “Love, Simon” è segnato dal suo inedito “Strawberries & Cigarettes”, mentre in “Boy Erased” è stato direttamente chiamato a recitare. Infine, nel corso di quest’anno è comparso in quasi ogni show della televisione americana per promuovere un nuovo set di canzoni.
Tuttavia, i nomi coinvolti e l’impegno per lanciarlo nell’olimpo non sono stati corrisposti a livello di ricezione mediatica su vasta scala. Le vendite importanti del disco furono dovute più all’attrazione fideistica che il suo personaggio è capace di sviluppare presso la comunità Lgbt, che alla presenza di singoli spacca-classifiche che nei fatti non ci sono stati. Neanche i nuovi brani presentati durante il 2018 sembrano essere riusciti nell’intento, fermo restando che il suo riscontro rimane superiore a quello del 99% delle band alternative in circolazione.
Se Sivan è “solo” il più famoso cantante indie-pop del mondo, e non una star assoluta come
Sam Smith, ci sono diversi motivi, che si svelano facilmente con l’ascolto di “Bloom”, il tanto atteso secondo album.
Prima di tutto, Smith è ben disposto a mettere da parte la propria sessualità e a vendersi come l’ennesimo cantante pop prêt-à-porter, mentre Sivan non conosce compromessi da questo punto di vista.
“Blue Neighbourhood” era una sorta di
concept-album, in forma diaristica, sui dolori e le incertezze di un adolescente omosessuale, mentre “Bloom” è l’album di quello che ora è un uomo adulto, deciso a lasciarsi dietro le spalle l’autoflagellazione e a rivendicare la propria essenza, parlando a più riprese – con gioia e orgoglio – della propria vita sessuale. O perché troppo intimo e malinconico, come nel disco precedente, o perché troppo sfacciato come in “Bloom”, Sivan non sembra per il momento destinato a dominare il mercato musicale. La massa, purtroppo, trova ancora qualcosa di disturbante in un ragazzo che, nel video di “My My My”, ancheggia come la
Britney Spears dei tempi d’oro. O che nel video della stessa “Bloom” sembra riportare in vita il
Bowie più teatrale aggiungendoci una delicatezza e una femminilità che non rientravano nel catalogo del Duca, quasi sempre alieno e un po’ inquietante.
Sivan non se ne preoccupa comunque più di tanto: “Bloom” è entrato al numero 4 della classifica americana e ha superato le centomila copie nel mondo durante la prima settimana. Risultati che gli permetteranno di continuare a fare ciò che vuole per ancora un bel po’ di tempo, anche senza finire nelle case di chiunque come Smith.
C’è poi una ragione squisitamente sonora, già accennata nell’introduzione. Da ascoltatore di musica abbastanza variegato (ama
Kate Bush, indossa magliette degli
Yes, e via dicendo), Sivan si pone sin dal principio su un piano diverso rispetto alle popstar del momento. I produttori che ha scelto per “Bloom” sono o santoni della musica indie (Ariel Rechtshaid, già in regia per
Vampire Weekend e
Blood Orange) o nomi che stanno provando a portare nel mainstream sonorità in controtendenza con i sapori dominanti: si pensi a Oscar Holter, che con la sua dance minimale e rarefatta ha reso interessanti, anche solo per pochi attimi, addirittura Taylor Swift e Pink. Certo con Sivan ha terreno molto più fertile, dato il suo approccio vocale decisamente meno invadente, all’insegna di sussurri e tinte pastello. Più variegato di “Blue Neighbourhood”, “Bloom” ne conferma l’integrità artistica: la musica di Sivan è maturata, ma riesce a mantenere quell’inusuale misto di candore e aristocrazia che ha avuto sin dall’inizio.
“Seventeen” non parte invero benissimo: a dispetto del testo di peso (che rivendica la maturità sessuale dei giovani poco sotto i diciotto anni, basandosi sul vissuto dello stesso Sivan), il brano soffre una base piuttosto blanda, con tanto di coretto pericolosamente vicino a quel
millennial whoop che ha appestato la musica degli ultimi dieci anni. Si cambia fortunatamente subito passo con “My My My!”, inno da club basato su un battito soffuso e su una serie di linee vocali stratificate, ora naturali, ora mandate al contrario, ora distorte. Da quel momento la scaletta attraversa gli stili più disparati, compattandoli principalmente tramite tre elementi: il timbro vocale di Sivan, gli infiniti trattamenti a cui questo viene sottoposto (spesso somiglianti a ibridi fra pop e musica ambient, felicemente distanti anni luce dal tipico autotune) e l’atmosfera rarefatta di base.
“The Good Side” ingloba dream-pop e cantautorato indie, sorretta da uno scarno giro di chitarra acustica e saltuarie goccioline sintetiche. La
title track è un capolavoro indie-pop, elettronico nella strofa e chitarristico nel ritornello, con splendidi arrangiamenti corali: la voce appare isolata e cantilenante nell’attacco, echeggiante e lontana un attimo dopo, densa di sovraincisioni nel
refrain. Un po’ per questo, un po’ per il suo sentore
glam, si potrebbe considerarla la nipotina con filtro Instagram di “
More Than This” dei
Roxy Music.
La canzone che più ha fatto parlare di sé è “Dance To This”, che vede la partecipazione di
Ariana Grande. Propulso da un sincopato ritmo elettronico e da una chitarra in stile tardi
Cocteau Twins, è un suadente misto di r&b alternativo e musica dance ovattata, con quel lieve stordimento da termine della notte, o se preferite da prime luci del mattino, che un tempo nella musica elettronica si indicava come “chill out”.
“Postcard” è una ballata pianistica ridotta all’osso, che lo vede accompagnato dalla cantautrice
indie australiana Gordi, in un momento di prezioso raccoglimento. “Plum” gioca un
riff di chitarra da sparare a tutto volume in chiusura del ritornello, oltre a filtri vocali che in paio di tratti ricordano
Imogen Heap. Sorprende la produzione di “What A Heavenly Way To Die”, con un’
intro di pianoforte elettrico sporco e granuloso, e una batteria elettronica minimale. Non fosse per la solita cura maniacale delle voci, verrebbe da pensare a un
demo piaciuto a tal punto da non essere ritoccato.
Dopo “Lucky Strike”, felicemente vicina al synth-pop anni Ottanta, è già il momento del gran finale. Appena trentacinque minuti di album, in un un’epoca in cui lo streaming ha portato molti artisti a proporre opere interminabili, con lo scopo di gonfiare in maniera un po’ truffaldina i conteggi per le classifiche. La chiusura è affidata ad “Animal”, ballata dream-pop da far invidia agli
M83, che colpisce al cuore quando, a 2’40’’, muta improvvisamente e passa da un giro di sol# maggiore a una serie di accordi in minore, ma soprattutto svuota l’arrangiamento sinfonico di botto, lasciando in sua vece una piccola pianola tremolante.
Per varietà degli arrangiamenti, cura della produzione, calore interpretativo, coraggio degli argomenti trattati (con tanto di descrizioni metaforiche degli atti sessuali – si pensi alla title track) e peso simbolico per il target a cui è rivolto, “Bloom” si candida a essere un disco molto importante. In particolare, se si tiene conto dei rigurgiti neofascisti che stanno prendendo piede in parte del mondo occidentale e che vedono nella comunità Lgbt un pericolo da neutralizzare.
21/09/2018