Aver vissuto prima l'estasi della notorietà e poi la costante minaccia della morte, per gravi e reiterati problemi di salute, deve aver fortificato non poco il carattere riservato e introverso di Ben Watt, musicista più noto per essere la metà degli Everything But The Girl che per il suo percorso da solista o di dj e produttore.
Per i non pochi che furono folgorati dal lontano esordio solista "North Marine Drive", il nome di Ben Watt è sacro, non fosse altro per aver incrociato nel suo percorso artistico un'autentica icona della musica rock come Robert Wyatt, con il quale realizzò un altro piccolo gioiellino di sintesi alt-folk, ovvero l'Ep "Summer Into Winter". Ed è da quei primi passi nel mondo della musica che sembra voler ripartire il musicista con il nuovo disco "Storm Damage", che non solo ripropone la stessa eleganza degli ultimi due album che ne hanno contrassegnato il ritorno come solista ("Hendra" 2014, "Fever Dream", 2016), ma nello stesso tempo estingue in parte la sbornia neo-elettronica in favore di un approccio più vintage alle tastiere, con una vena stilistica affine al folk-jazz degli esordi.
Che dietro queste più introverse e malinconiche ballate ci siano anche motivazioni personali è fuori di dubbio - la morte per cancro del fratellastro Roly ha segnato il destino di Ben Watt, che in seguito al dolore è rimasto per un anno in completa balia della rabbia e della solitudine. Ed è forse per questa ragione che "Storm Damage" indugia su toni più crepuscolari, ricchi di chiaroscuri e vellutate ombre. Nessuna enfasi vocale né strumentale per le dieci canzoni di questo nuovo album, che rappresenta senza dubbio lo sforzo più imponente e nello stesso tempo più spontaneo del musicista dai tempi degli esordi. Strano a dirsi, è anche il disco solista, per molti versi, più elettronico, nonostante, come già detto, il timbro meno moderno e più retrò di drum machine e altre diavolerie; un album spesso affine alle contaminazioni obbligate di David Gray e a quelle intenzionali di John Grant.
Non confondano le fin troppe leziose armonie pop dei singoli che hanno anticipato l'uscita del disco, due brani che avrebbero fatto la loro figura in un disco dei Crowded House (la prevedibile "Sunlight Follows The Night") o in una playlist di una radio rock-friendly (la leggermente irritante "Figures In A Landscape"), ma non certamente in quel che è il contesto più sofferto e maturo mai messo in atto dal musicista.
Un'intensità lirica ed espressiva come quella che anima "Summer Ghost" era assente da tempo nell'universo di Watt: nell'arco di pochi minuti il musicista, parafrasando il testo ispirato alla credenza giapponese sull'apparizione dei fantasmi in estate, rievoca il lirismo di Robert Wyatt, il tono algido di David Sylvian e il distacco emotivo di John Grant. Tanta grazia e ispirazione viene confermata nell'altro gioiellino folk-jazz "Knife In The Drawer", nel quale spicca la presenza del contrabbassista Rex Horan che, alla maniera del grande Danny Thompson, rievoca i fasti della contaminazione tra folk e jazz sigillata nei capolavori di Nick Drake. Ed è l'identica magia che si rinnova nell'articolata "Retreat To Find" e nella toccante ballata acustica "Irene", dove compare un altro ospite illustre: Alan Sparhawk dei Low.
Introspettivo ma non introverso, "Storm Damage" rappresenta per Ben Watt l'album della perfetta sintesi tra maturità e voglia di rimettersi in gioco: un manifesto sincero di chi sta cercando di superare i dubbi provocati dall'avvicinarsi della terza età. "Chi mi porterà le borse quando sarò fragile e stanco", si chiede il musicista mentre le arie malinconiche di "Hand" si adagiano su incantevoli note di piano, le stesse che accompagnano l'accorata ballata "Festival Song", dove a far male non è più il futuro ma il passato che scivola via: "Ho perso tutti i miei amici ore fa, ma ho ballato e bevuto con un sacco pieno di cose che non conoscevo".
04/03/2020