Si è spezzata l’unione artistica fra Domenic Palermo e Brandon Setta, i due cantanti- chitarristi dalle evidenti origini italiane che da sempre avevano costituito la spina dorsale del progetto Nothing. Dopo aver perso per strada anche il bassista Nick Bassett, oggi la band di Philadelphia poteva rischiare di trasformarsi in qualcosa di molto diverso rispetto a quella che realizzò “Guilty Of Everything”, disco fondamentale per il movimento nu-gaze del nuovo millennio. E invece la scrittura non ne risente affatto, grazie al lavoro di coaching svolto da Palermo (peraltro anche migliorato dal punto di vista vocale), che ha permesso di ben integrare nel gruppo sia il bassista Aaron Heard (già nel precedente “Dance On The Blacktop”) che il nuovo chitarrista Doyle Martin, ex-leader dei Cloakroom.
“The Great Dismal” mantiene così l’estetica dei precedenti album, evitando però di smussare troppo gli angoli - come avvenne negli ultimi due - e promuovendo un felice come back verso il suono complessivamente più crudo degli esordi. Il mix stilistico proposto dal quartetto è ormai collaudatissimo: affonda le radici nelle commoventi chitarre shoegaze ispirate dagli Slowdive sia nell’onirica “A Fabricated Life”, completamente priva di batteria, che nella più “hard” (non è un caso che incidano per la Relapse) “In Blueberry Memories”. Suoni che accolgono le influenze dei My Bloody Valentine, nelle stratificazioni iper-effettate di “Say Less” e “April Ha Ha”, e degli Smashing Pumpkins nel granitico post-grunge della portentosa “Famine Asylum”.
C’è poi molto dei Deftones nella sequenza “Blue Mecca”/ “Just A Story”, in “Catch A Fade” si volge lo sguardo alla capacità dei Cure di fondere goticismi e propensioni “pop”, mentre gli accordi distorti ospitati nell’ultimo minuto della conclusiva “Ask The Rust” sono un omaggio agli stacchi noise prodotti dai Ride ai tempi di “Dreams Burn Down”. E’ un sound imperioso, ricchissimo di pathos, quello di “The Great Dismal”, fortemente ispirato dai suoni degli anni 90, ma con quella scrittura esistenzialista (il perenne timore di cadere, di sprofondare, costituisce un altro punto in comune con la poetica degli Slowdive) che trova il proprio humus nell’isolazionismo da Coronavirus di questi mesi. Un pugno di canzoni che si sposano – inconsapevolmente – alla perfezione con i tempi che stiamo vivendo.
10/11/2020