Nothing

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Stanchi di tutto: disagio e chitarre negli anni 10

Il quartetto di Philadelphia è entrato fra le stelle di prima grandezza del panorama nu-shoegaze, miscelando muri di chitarre, amplificatori al massimo, testi incentrati sul disagio esistenziale e un'innata attenzione per la melodia. Talento e cascate di feedback per rinnovare una tradizione che da My Bloody Valentine e Slowdive arriva sino ai giorni nostri

di Claudio Lancia

Philadelphia, Pennsylvania

In principio furono gli Horror Show, formazione hardcore- punk nelle cui fila militava un giovanissimo Domenic “Nicky” Palermo. Anni di gavetta, tre Ep all’alba del nuovo millennio, un album antologico postumo. Nei ritagli di tempo l’apparizione negli XO Skeletons, dove suonò con Sean Martin degli Hatebreed. Appena un paio di registrazioni furono il bottino messo in cassaforte, prima che Nicky finì in prigione per due anni a seguito di una rissa corredata da accoltellamento (ma Palermo si appellò sempre, invocando l’autodifesa). Il periodo trascorso dietro le sbarre e gli anni immediatamente successivi, servirono per ragionare sul percorso da intraprendere, che dal 2010 ebbe una denominazione ben precisa: Nothing.
La prima uscita ufficiale del neonato progetto fu l’Ep autoprodotto Poshlost, successivamente reimmesso in circolazione dalla piccola label indipendente Like Glue Records, con una tiratura limitata su musicassetta. Da alcuni considerato un demo acerbo e trascurabile (venduto ai concerti dell’epoca duplicato in Cd-r con copertina e tracklist fotocopiate), in realtà già conteneva tutte le stimmate sonore che contraddistingueranno la band, attiva da subito su coordinate capaci di integrare aromi wave e slanci rumoristici. “Last Day In Bouville”, per la quale venne realizzato un videoclip, fu la prima canzone in grado di ritagliarsi un certo spazio. Nell’Ep comparivano anche una versione primordiale di “B&E” (che ritroveremo più avanti sotto sembianze diverse) e “Phantom”.

Ma è solo l’inizio: una sera in un locale di Philadelphia, nel bel mezzo di un party dedicato agli Smiths, Palermo conosce Brandon Setta, altro cantante / chitarrista. E’ subito sintonia: il giorno dopo Brandon è già nel gruppo, pronto a scolarsi ettolitri di birre, scrivere grandi canzoni e far colpo sulle ragazze della zona con la sua aria da eterno imbronciato.
Palermo e Setta, oltre ad avere entrambi cognomi dalle evidenti origini italiane, hanno gusti musicali simili e una visione artistica comune, che sfocia in rapida sequenza nella scrittura degli Ep Suns And Lovers e soprattutto Downward Years To Come, attraverso i quali si delinea in maniera sempre più nitida una linea musicale improntata su un melodico shoegaze dai forti connotati epici, arricchito da testi dalle inequivocabili sfumature dark. Suns And Lovers, edito nel 2011 in qualche centinaio di esemplari dalla Big Love Records e suonato con una line up provvisoria, contiene, oltre alla title track, “Carnival” e una versione alternativa di “Last Day In Bouville”.

Downward Years To Come viene pubblicato un anno più tardi dalla label A389, di solito impegnata in produzioni hardcore/metal. In effetti da questi solchi emerge con forza il tentativo di contaminare lo shoegaze proprio con l’hardcore, elemento del resto ben presente nel background dei singoli membri della band, che tende a posizionarsi come attitudine più verso il punk che verso il dream-pop. L’atmosfera generale risulta trasognata e malinconica, con la voce spesso lasciata in secondo piano, seppellita da una coltre di droni e feedback: una precisa scelta estetica che richiamo l’atteggiamento dei My Bloody Valentine, e che viene ben rappresentata nei due minuti e mezzo dell’iniziale “The Dives (Lazarus In Ashes)”. La prossimità nei confronti di Ride, Slowdive e Swervedriver è confermata dalla title track, nella quale, scavando sotto il substrato di suoni stratificati, si scorge potente la melodia, con la coda finale di un minuto che è un trionfo di riverberi e delay. La monumentale “Mine Is Clouds” risulta progenitrice dei loro migliori brani a venire, mentre alla successiva “If Only” spetta il compito di rallentare il ritmo e accompagnare l’ascoltatore verso l’epilogo lunare di “The Rites Of Love And Death”.
Downward Years To Come inizia a far conoscere in maniera più diffusa le potenzialità (in parte ancora inespresse) della compagine americana, la quale molto presto saprà estrarre dal cilindro i brani in grado di mutare il proprio destino. Due anni più tardi sarà distribuita una nuova versione di questo Ep con due tracce aggiuntive: le versioni acustiche delle già edite “Suns And Lovers” e “B&E”.

Epica shoegazer

Ma ecco che finalmente arriva il momento decisivo. Gli spunti dei primi tre Ep germogliano in maniera compiuta nel primo magistrale full length: Guilty Of Everything. Pubblicato nel marzo del 2014 dalla Relapse Records (anche in questo caso trattasi di un’etichetta tradizionalmente orientata verso il metal/hardcore), e subito acclamato dalla critica mondiale, è un album che non solo è considerabile come uno dei migliori esempi di nu-shoegaze del nuovo millennio, ma riesce persino nel difficile intento di non sfigurare accanto alle pietre miliari del genere, da conservare gelosamente accanto a cimeli quali “Loveless” e “Just For A Day”. Un disco iconico sin dall’immagina scelta per la copertina: una bandiera bianca che sventola su sfondo mero, quasi a voler mostrare una resa incondizionata, forse un messaggio di Palermo, un suo voler chiedere scusa per le proprie colpe.
In Guilty Of Everything il potente wall of sound chitarristico si sposa con atmosfere profondamente epiche, e l’onnipresente vena malinconica cavalca riff devastanti. Almeno due i manifesti della band ivi inclusi, le indispensabili “Endlessly” e “B&E”, quest’ultima finalmente nella versione definitiva, con tanto di coda strumentale che entra di diritto nel meglio dello shoegaze di sempre. I suoni sono quasi sempre esplosivi (“Dig”, “Bent Nail”, “Get Well”), e anche quando sembra profilarsi uno spiraglio di serenità, l’atmosfera resta permanentemente carica di tensione. Tutto è sempre sul punto di deflagrare, dall’iniziale “Hymn To The Pillory” fino alla conclusiva title track. L’alone dark che aleggia fra questi solchi trova il proprio zenit in corrispondenza dell’onirica “Somersault”, altro irrinunciabile valore aggiunto delle nove tracce che filano via come un treno. Nella line up oltre ai due cantanti/chitarristi compaiono Chris Betts al basso e Kyle Kimball alla batteria.

Parte subito un tour che terrà impegnata la band per molti mesi, anche oltre i confini del paese natio. Ad aprile del 2014 sono la principale attrazione del cartellone di concerti organizzato dalla Rough Trade di Brooklyn per il Record Store Day. Nell’autunno dello stesso anno sbarcano in Europa, facendo tappa anche in Italia, dove suonano il 4 novembre al Freak Out di Bologna, il 5 novembre al Quirinetta di Roma e il giorno successivo all’Ohibò di Milano. Nel frattempo si è concretizzato un importante avvicendamento al basso: Chris Betts viene sostituito dal biondissimo ex Deafheaven Nick Bassett, attivo parallelamente anche nei Whirr, “The LOUDEST band ever” come viene identificata nei ringraziamenti sul libretto di Guilty Of Everything.

Split e progetti paralleli

Durante le date europee è possibile trovare al banchetto uno Split Ep realizzato in coabitazione proprio con i Whirr, che spesso hanno condiviso con i Nothing il palco durante il tour. Le quattro tracce incluse si muovono in costante equilibrio fra rumore e melodia, lanciandosi in un personale dream-pop che tende ad affrancarsi dai confronti col passato (My Bloody Valentine, Ride e Slowdive in primis) per divenire punto di riferimento per la scena shoegaze-noise in divenire. I Whirr contribuiscono con “Ease” e “Lean”, due episodi più cristallini rispetto al magma sonoro racchiuso nel loro recente Sway, dove droni e chitarre ipereffettate tendevano a seppellire tutto. “Chloroform” (con un attacco degno degli Smashing Pumpkins di “Siamese Dream”) e “July The Fourth” (con l’asse un pochino più spostato verso i Nirvana) sono invece gli ottimi contributi dei Nothing, che confermano il proprio eccellente stato di grazia.

I ragazzi sfruttano il momento di iper prolificità per impegnarsi su nuovi fronti comuni, fra i quali desta interesse il progetto Death Of Lovers. Al centro della formazione resta sempre Domenic Palermo, coadiuvato dal bassista Nick Bassett, dal batterista Kyle Kimball e dall’affascinante tastierista Cecilia Liu, dalla vaga somiglianza con la D’Arcy dei primi Smashing Pumpkins. Dietro le quinte dà una mano anche Brandon Setta, il quale non compare nei videoclip ufficiali, ma è accreditato nella line up e suona abitualmente sul palco con il gruppo. Si tratta quindi di una sorta di Nothing 2, con l’asse però decisamente spostato verso suoni di diretta derivazione dark-wave, rifacendosi all’immaginario che fu di Cure, Joy Division (apertamente richiamati nell’iniziale “Cold Heaven”), Bauhaus e Sisters Of Mercy.
Buried Under A World Of Roses, pubblicato nel 2014 per Deathwish Inc. (la stessa label che si occupò anni prima delle produzioni firmate Horror Show), è un esordio che ha l’aria di essere tutt’altro che il frutto di un’operazione estemporanea. Le quattro tracce sono compatte e ben definite, impregnate di suoni plumbei, depressi e marcatamente gotici, attraverso i quali i Death Of Lovers (nome baudeleriano sin nel midollo) dimostrano di aver mandato a memoria ogni singola nota di “Pornography” (“Shaken” pare una tesi di laurea sul periodo più tormentato di Robert Smith, ma anche la title track non ci va tanto per il sottile, risultando anche il miglior pezzo del  lotto), rilanciando certe ambientazioni sonore decadenti in chiave modernista.

Nel frattempo i Nothing lavorano alla scrittura dei brani che comporranno il secondo album, ma le operazioni avanzano non senza difficoltà. Palermo viene aggredito una sera dopo uno show, e si trova costretto ad una lunga degenza ospedaliera. Come se non bastasse deve far fronte anche alla scomparsa del padre. Gli eventi non proprio fortunati permeeranno le liriche del nuovo disco che viene pubblicato il 13 maggio del 2016 e sarà seguito da un lungo tour negli Stati Uniti che impegnerà il gruppo per l’intera estate successiva.

Come puntare al "mainstream" restando "alternative"

Tired Of Tomorrow, nuovamente marchiato a fuoco da Relapse Records, amplia a dismisura lo spettro sonoro dei Nothing. Appaiono subito evidenti una serie di scelte estetiche: rinunciare alla componente hardcore, portare le voci in prima linea, non puntare più soltanto sugli insormontabili muri di suono catapultati in faccia all’ascoltatore, bensì anche sul fine intarsio artigianale che questa volta produce tre (inaspettate ma deliziose) ballad elettroacustiche, e persino una traccia finale basata su pianoforte e archi. Tired Of Tomorrow è idealmente suddiviso in tre parti distinte, dove la prima ospita gli episodi più elettricamente epici, direttamente riconducibili all’immaginario shoegaze-noise delineato dall’esordio: “Fever Queen”, “The Dead Are Dumb” e “ACE” (acronimo che sta per “ Abcessive Compulsive Disorder”) rappresentano l’ideale mix di stratificazioni elettriche e architetture melodiche, dove all’apparente asprezza, ai feedback e ai volumi sparati al massimo si accompagnano centrifughe di intensa malinconia e romanticismo decadente. La sequenza delle prime maestose quattro tracce, contiene anche la perfect hit “Vertigo Flower”, un concentrato di energia che farebbe la felicità dell’odierno Dave Grohl.
La lenta “Nineteen Ninety Heaven” funge da ideale epilogo per il Side A, e schiude lo scenario verso la seconda parte del disco, incentrata su suoni meno trasognati e più graniticamente fuzz, nella quale emerge il desiderio di omaggiare con riverenza e personalità i miti del rock alternativo degli anni 90 (gli Smashing Pumpkins epoca “Gish” / “Siamese Dream” affiorano evidenti in “Curse Of The Sun”) e gli indimenticati eroi dell’epopea grunge (i Nirvana chiamati in causa su “Eaten By Worms”). La terza parte dell’album, quella che fornisce le maggiori novità rispetto al passato, asseconda il lato più atmosferico dei Nothing, l’energia che si placa e implode, stendendosi sulle note dolci e dolenti di “Everyone Is Happy” e “Our Plague”, seguite dalla pianistica title track, che chiude un lavoro pressoché perfetto.

Pare così raggiunto, almeno in studio, un maggior controllo nella gestione delle dinamiche sonore, l’unico punto debole dei Nothing, i quali durante le esibizioni live producono un magma così carico di volumi ed effetti da far perdere nitidezza alle belle melodie architettate da Palermo e Setta. Il talento e la capacità di scrittura dei Nothing sono elementi in grado di lanciare la formazione americana verso traguardi che possono andare ben oltre la nicchia di appartenenza, trasformandola da portabandiera della nuova scena shoegaze-noise a protagonista assoluta dell’intero sottosuolo alt-rock contemporaneo.
E’ una lenta ma costante evoluzione, quella dei Nothing, che si pone la sfida di lanciare l’indie dentro il mainstream. E’ un affare sempre molto difficile da realizzare, ma i ragazzi son qui a dimostrare che si può aspirare a diventare fenomeno di massa senza passare necessariamente attraverso un rockettino finto e furbetto: può esistere una terza via praticabile, verace e sincera, per portare il disagio contemporaneo e le chitarre elettriche al centro dell’attenzione. Come ci insegnò Kurt Cobain.

I cambi di line-up non modificano l'estetica della band

Ma i guai di Domenic Palermo non sono terminati: gli viene diagnosticata una malattia neurodegenerativa, intercettata ancora in uno stadio embrionale, la CTE, Chronic Traumatic Encephalopathy. Anche questa volta il cantante saprà attingere dalle proprie sventure per scrivere i nuovi versi nichilisti che andranno a comporre Dance On The Blacktop, in store il 24 agosto 2018. Sono due le direttrici entro le quali si muove il terzo album dei Nothing. Da un lato il voler perseverare lungo quei sentieri shoegaze e post-grunge già ben battuti nei due precedenti lavori, e su questo versante il quartetto di Philadelphia avrebbe poco da aggiungere rispetto a quanto già ottimamente prodotto. Dall’altro lato i ragazzi si impegnano a rendere le proprie composizioni più fruibili, smussando quasi tutte le asperità, ma restando inequivocabilmente sé stessi. L'album registra l’ingresso del nuovo bassista di colore Aaron Heard e la conferma di John Agnello in cabina di regia. La cascata di chitarre iper distorte in “Zero Day”, dove fortissima è la radice Smashing Pumpkins, fissa subito il mood generale, ma lo zenit del disco va colto nell’estasi shoegaze di “Blue Line Baby” e “(Hope) Is Just Another Word With A Hole In It”, entrambe con incipit chitarristico da restare di sasso. Le delizie per chi si sente orfano degli anni 90 non mancano di sicuro, ma rispetto al passato questa volta i Nothing puntano con maggior determinazione sui ganci melodici, sempre ben supportati da vagonate di effetti azionati da Palermo e Brandon Setta, co-autori di tutte le tracce.
Azzerata la componente hardcore degli esordi, restano brani brillantemente radiofonici (“You Wind Me Up” è l’hit che i Dinosaur Jr. stanno ancora cercando di scrivere) e malinconicamente “pop” (“Hail On Palace Pier” è il perno di una sezione centrale particolarmente friendly). Dance On The Blacktop guadagna così il titolo di album più “easy” sin qui prodotto dai Nothing, sebbene l’alt-rock qui presente venga sempre scartavetrato da muri di Marshall. Talune frasi tormentone (“Everything’s grey”, ripetuta all’interno di “Us/We/Are”) ci riportano in quei grigi pomeriggi che resero Seattle un trademark (anche “I Hate The Flowers” si aggira grosso modo da quelle parti) e l’unica vera pausa da tanto fragore giunge con l’atmosfera notturna della penultima traccia, “The Carpenter’s Song”, dedicata al padre di Domenic, affogato dopo un incidente in bicicletta (pare avesse seri problemi di tossicodipendenza).

Nel 2019 si spezza l’unione artistica fra Domenic Palermo e Brandon Setta, ma la scrittura dei Nothing non ne risente affatto, grazie al lavoro di coaching svolto da Palermo (peraltro migliorato dal punto di vista vocale), che ha permesso di ben integrare nel gruppo sia il bassista Aaron Heard che il nuovo chitarrista Doyle Martin, ex leader dei Cloakroom. La nuova line-up incide The Great Dismal (pubblicato a fine ottobre 2020, in piena seconda ondata pandemica da Covid-19) che mantiene l’estetica dei precedenti album, evitando però di smussare troppo gli angoli - come avvenne nei due precedenti- e promuovendo un felice come back verso il suono complessivamente più crudo degli esordi. Il mix stilistico proposto dal quartetto è oramai collaudatissimo: affonda le radici nelle commoventi chitarre shoegaze ispirate dagli Slowdive sia nell’onirica “A Fabricated Life”, completamente priva di batteria, che nella più “hard” (non è un caso che incidano per la Relapse) “In Blueberry Memories”. Suoni che accolgono le influenze dei My Bloody Valentine, nelle stratificazioni iper effettate di “Say Less” e “April Ha Ha”, e degli Smashing Pumpkins nel granitico post-grunge della portentosa “Famine Asylum”.
C’è poi molto dei Deftones nella sequenza “Blue Mecca” / “Just A Story”, in “Catch A Fade” si volge lo sguardo alla capacità dei Cure di fondere goticismi e propensioni “pop”, mentre gli accordi distorti ospitati nell’ultimo minuto della conclusiva “Ask The Rust” sono un omaggio agli stacchi noise prodotti dai Ride ai tempi di “Dreams Burn Down”. E’ un sound imperioso, ricchissimo di pathos, quello di The Great Dismal, fortemente ispirato dai suoni degli anni 90, ma con quella scrittura esistenzialista (il perenne timore di cadere, di sprofondare, costituisce un altro punto in comune con la poetica degli Slowdive) che trova il proprio humus nell’isolazionismo da Coronavirus. Un pugno di canzoni che si sposano – inconsapevolmente – alla perfezione con i tempi che stiamo vivendo.

A dicembre del 2023 i Nothing pubblicano When No Birds Sang, disco condiviso con la formazione grindcore Full Of Hell, concepita come frutto di un inedito collettivo allargato, scrivendo e sviluppando insieme il materiale contenuto nelle sei tracce incluse. Il mood impresso dall’iniziale “Rose Tinted”, otto minuti brutali di inestricabili riff e orrorifici screamo, imprime senza compromessi un'evidente direzione metal. Salvo poi, nella traccia successiva, correggere il tiro in maniera repentina attraverso la preghiera slowcore “World Like Stars In The Firmament”, pronta a virare verso atmosfere oniriche, prospettando un saliscendi che proseguirà per l’intera durata dell’album.
Mettendo a fattor comune le reciproche scritture scaturisce il minaccioso ambient post-nucleare di “Forever Well”, pronto ad esplodere nella seconda parte come una tempesta di napalm. Torna – momentanea - la quiete per l’eterea strumentale “Wild Wood”, lasciapassare verso una sezione finale caratterizzata da una confortevole title track cantata da Domenic Palermo e dalla detonazione fissata nell’arcigna “Spend The Grace”, dove il microfono passa nelle mani di Dylan Walker, per un’alternanza vocale che risulta uno dei grandi valori aggiunti del progetto.
A tratti “When No Birds Sang” riserva la tipica sensazione di caduta in un precipizio, l’attimo successivo le canzoni trasmettono invece un senso come di ascensione. Ferocia e dissolvenza si rincorrono, dissonanze e delicatezze convivono in maniera naturale, in un lavoro claustrofobico e sinistro ma al contempo fragile e liberatorio, per un risultato finale che potrebbe piacere a chi ha adorato i gotici wall of sound di “Sunbather” dei Deafheaven.

Nel 2023 i Nothing annunciato anche di essersi fatti promotori di un Festival, denominato Slide Away, dedicato ai suoni shoegaze, dream-pop ed ambient, che si terrà il 9 marzo a Philadelphia, fra le mura amiche, e il 30 marzo a Los Angeles, per quella che si preannuncia come una celebrazione del sound che la formazione americana pratica da sempre, tanto da essere riconosciuta fra i massimi riferimenti della scena nu-gaze del nuovo millennio.
Se molti nomi storici della scena shoegaze negli ultimi anni sono ritornati in attività, è merito anche del richiamo suscitato da giovani band come i Nothing, giunte a un livello di autorevolezza tale da (contribuire a) far riaccendere i riflettori su un genere musicale che sembrava inesorabilmente destinato all’oblio. Non c’è niente di nuovo nei dischi dei Nothing, ma non hanno nulla da invidiare ai "classici". Hanno mandato a memoria la lezione di Slowdive e Nirvana (il lato shoegaze a quello grunge), l’hanno digerita, metabolizzata, fatta propria e risputata al mondo, diventando fra i più bravi a ricreare quelle atmosfere che in tanti hanno adorato.

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Discografia

NOTHING:
Poshlost(Ep, Like Glue, 2010)6
Suns And Lovers (Ep, Big Love, 2011)6
Downward Years To Come (Ep, A389, 2012)6,5
Guilty Of Everything(Relapse, 2014) 9
Whirr/Nothing (Split Ep, Run For Cover, 2014)7
Tired Of Tomorrow (Relapse, 2016) 8
Dance On The Blacktop (Relapse, 2018)7,5
The Great Dismal (Relapse, 2020)7,5
When No Birds Sang (with Full Of Hell, Closed Casket, 2023)7
DEATH OF LOVERS:
Buried Under A World Of Roses (Deathwish Inc., 2014) 6,5
The Acrobat (Dais, 2017)6,5
HORROR SHOW:
Demo 2002 (Mc, autoprodotto, 2002)
Our Design (Ep, Deathwish Inc., 2002)
The Holiday (Ep, Deathwish Inc., 2005)
Notes From The Night That Never Ended (Deathwish Inc., 2011)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Last Day In Bouville
(videoclip da Poshlost, 2010)
Suns And Lovers
(videoclip da Suns And Lovers, 2011)
Downward Years To Come
(videoclip da Downward Years To Come, 2012)
Bent Nail
(videoclip da Guilty Of Everything, 2014)
Chloroform
(videoclip da Whirr/Nothing Split Ep, 2014)
Vertigo Flowers
(videoclip da Tired Of Tomorrow, 2016)
Eaten By Worms
(videoclip da Tired Of Tomorrow, 2016)
Zero Day
(videoclip da Dance On the Blacktop, 2018)
Blue Line Baby
(videoclip da Dance On the Blacktop, 2018)
Live On KEXP - Full Performance 
(May 23, 2014)

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