Non proprio due generi per tutti lo shoegaze e il black metal, figuriamoci la loro sintesi, il blackgaze. Eppure, intorno al 2013 era nelle orecchie di tutti gli appassionati di musica alternativa del mondo. Un risultato al quale i vari precursori, come Alcest, Amoseurs, Agalloch, Pyramids e Wolves In The Throne Room, non avrebbero mai creduto e forse nemmeno anelato. In effetti, quella che i Deafheaven compirono con il loro secondo disco, Sunbather del 2013, che li portò alla ribalta e nelle righe in grassetto dei cartelloni dei maggiori festival del mondo, è un’impresa che assume contorni miracolosi. Solitamente operazioni del genere riescono smussando gli angoli, riducendo pesi e attriti, levigando in parte la ruvida durezza della proposta originale. Nel caso della band di San Francisco e della sua intransigente opera seconda non è stato così. Esplosioni di luci eteree, tersi cieli turner-iani e trompe l’oeil melodici aiutano sicuramente la fruizione del disco, che però in buona sostanza rimane perentorio e fedele al canone blackgaze degli iniziatori, con Clarke a ululare come uno scorticato in un girone infernale, inscenato da chitarre a zanzara e una sezione ritmica da sito di demolizione. La ragione del successo va dunque ricercata nella sapienza con la quale il gruppo è riuscito a mettere in linea gli ingredienti, rendendoli, anche grazie all’imponente carica emotiva, appetibili ai più. Non soltanto gli attacchi brutali del black metal e le sognanti, melanconiche distensioni dello shoegaze, ma anche le strutture del post-rock (o del post-metal) a fare da collante, da snodo progressivo alle due anime.
2010 – 2012: dalle ceneri dei Rise Of Caligula a Roads To Judah
All’inizio i Deafhaven erano un duo, formato dai soli George Clark (voce, o meglio urla) e Kerry McCoy (chitarra), entrambi provenienti dalla formazione grindcore Rise Of Caligula. Decisi a esplorare nuovi, lievemente più atmosferici territori, i due realizzano una demotape senza titolo, in prevalenza scritta e suonata con una chitarra acustica (perché i due non possedevano altro), che garantisce loro la firma presso la Deathwish Inc. del patron Jacob Bannon (tra le altre cose, voce dei Converge).
Il chiacchiericcio che si sviluppa intorno alla demotape porta rapidamente alla realizzazione di un album. Per rendere però appieno quello che i due hanno in mente e che le prime registrazioni, per forza di cose, hanno soltanto abbozzato, diventa necessario tramutarsi in una band vera e propria. Vengono quindi arruolate vecchie conoscenze della zona della bay, nonché candidati conosciuti tramite Craiglist: Nick bassett alla seconda chitarra, Trevor Deschyver alla batteria e Derek Prine al basso.
Tra la firma per la Deathwish, datata dicembre 2010, e il rilascio del primo disco, Roads To Judah, intercorrono soltanto cinque mesi.
Lungo soltanto quattro tracce per 38 minuti, Roads To Judah è il disco dei Deafheaven più legato al post-rock-metal, dal quale mutua l’indole narrativa dei brani, che dipanandosi sembrano imbastire scenari e raccontare storie. Nonostante una produzione ancora distante dalla perfezione degli episodi discografici successivi, il primo Lp della band si mostra sicuro e deciso nella direzione da intraprendere, al punto da sembrare tutt’altro che un debutto.
Nei suoi dodici minuti e rotti di durata, “Violet” si dispiega come un caleidoscopio di toni, umori, stasi ed esplosioni che potrebbe fungere da catalogo delle variegate possibilità espressive della cricca raggruppata da Clarke e McCoy.
Immersi tra arpeggi di chitarra che riverberano e si allungano come stormi di uccelli, più affini a Mogwai (non a caso la band si esibirà spesso nella cover di “Cody” degli scozzesi) ed Explosions In The Sky che al post-metal, all’inizio del brano ci troviamo come lungo una riviera, all’imbrunire. La tempesta è dietro l’angolo e ci investe sotto forma di sciami di chitarre, scream disperati e una batteria che sembra mimare una grandinata. Rapida e possente, precisa, ma brutale e istintiva, specie quando Deschyver pesta, tra le altre cose, sul campanaccio. A una distensiva pausa ritmica ardente di chitarre post-metal, segue un finale apocalittico e onirico, dove le chitarre lanciano razzi come una barca in avaria.
Di contro, “Language Game” è semplicemente brutale. Si inizia in medias res, nel pieno di un torrente di chitarre iper-distorte e della solita batteria spietata. Si tira il fiato per pochissimi istanti arpeggiati e dopo ogni pausa si ricomincia col pandemonio, con i cinque che ci vanno ogni volta ancora più duro.
All’inizio, “Unrequited” è una suite poetica, deliziosa estasi di malinconia e tremolo. Languida quasi come gli Slowdive. Almeno finché non viene sventrata da un latrato di George Clarke, che ormai vocalizza come un insaziabile zombie errante di Romero e si tira dietro una devastante scorribanda strumentale, la più epica del disco.
Nei suoi inafferrabili dieci minuti, “Tunnel Of Trees” rappresenta uno dei vertici immaginifici della produzione della band. Nell’inizio a rotta di collo, sembra davvero di correre in una fitta selva di alberi robusti e oscuri, inciampando negli arbusti o cozzando con violenza contro i tronchi minacciosi e disallineati. Pulsanti assoli di batteria, assordanti pause droniche, riff durissimi, scream abissali e un finale a sfumare tra dolenti note di pianoforte disegnano la fuga disperata da un nemico occulto e invincibile.
Con quattro tracce che sembrano quattro racconti affrescati sulle mura di una castello, la cinquina di base a San Francisco realizza uno dei vertici del blackgaze e del passato recente del post-metal. È però soltanto l’inizio di dieci anni che, al netto di piccoli passi falsi, la band vivrà sotto i riflettori, portando con sé quello che chiunque stenderebbe a definire un genere accessibile.
2013 – 2016: gli anni della consacrazione
Nonostante l’enorme riuscita di Roads To Judah, un disco in tutto e per tutto concepito e registrato come il lavoro di una band di cinque elementi, per il loro sophomore Clarke e McCoy decidono di lavorare in solitaria, reclutando nuovi membri soltanto per parte delle registrazioni e per il tour. Un nuovo batterista, dunque, Daniel Tracy, che parteciperà anche alle registrazioni del disco. E poi il bassista Steven Clark e il fragoroso chitarrista Shiv Mehra, imbarcati invece solo al momento di promuovere il disco sui palchi di mezzo mondo.
Raccogliendo un record di recensioni entusiastiche sia dalla stampa metal che da quella alternativa, nonché raggiungendo la posizione 130 della classifica di Billboard (risultato non proprio scontato per un disco del genere), Sunbather sancisce la totale consacrazione della band. Eppure, come abbiamo anticipato, non si tratta di un disco più accessibile del suo predecessore. Anzi, per certi versi suona ancora più duro, tagliente, spigoloso. I passaggi tra le parti black metal e quelle shoegaze, con i due generi che però a tratti si amalgamano più che in passato (merito anche dell’alchemico produttore Jack Shirley), sono ferali. Il rumore è assordante, la ritmica ancora più rapida e torrenziale, il dolore nudo e gridato senza speranza e contegno.
In fase di promozione Clarke parlò però di una maggiore “attitudine pop”. La dichiarazione si riflette certamente su alcune concessioni melodiche, specie nei brani intermezzo, e più in generale sul ruolo della chitarra solista. Nulla che basti però a fare di Sunbather un disco più soft di Roads To Judah.
Prendere il sole, recita il titolo stilizzato a caratteri minimali sull’elegante copertina rosa del disco. Fino a scottarsi, però, fino a spellarci vivi e rivelare un substrato di tessuti pulsanti e disperati, ancora più sotto un subconscio gravato da frustrazione quotidiana e disperazione latente. Gridate fino a farsi male, le liriche di Clarke descrivono l’impossibilità di quella che lui immagina come una vita perfetta. Utopia erosa da dolori, incomprensioni, lutti e altri drammi che si intrecciano con la nostra routine.
Rispetto a Roads To Judah, la principale novità compositiva apportata in Sunbather dal duo Clarke-McCoy è l’alternanza delle canzoni vere e proprie con lunghi intermezzi strumentali. Una scelta che comporta la durata monstre del disco, al quale mancano soltanto tre minuti per centrare l’ora tonda.
A loro volta molto strutturati ed evocativi, questi intermezzi sono molto diversi tra di loro e fungono da overture alle canzoni che li seguono. “Irresistible” è un post-rock autunnale alla ricerca della grazia, che gli inciampa dentro sotto forma di pianoforte; “Please Remember” avvolge l’ospite Neige (dei colleghi transalpini Alcest), intento a recitare un passo de “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, tra ossessivi arpeggi di chitarra, per poi prodursi in un assordante drone; l’ultimo, “Windows”, è il più cupo e campiona campane che suonano a morte e stralci di una conversazione sulla fede.
Si inizia con quella che probabilmente è ad oggi la canzone più famosa dei Deafheaven, “Dream House”. Una fan favourite che mette in campo la ritmica forsennata tipica del black metal, chitarre abrasive, shoegaze senza limite di volume, lacerante e rovente, e George Clarke a urlare, sempre più criptico e incomprensibile, alcuni dei suoi versi più poetici e più sofisticati – non intellegibili, però, almeno senza sussidio delle note di copertina, anche a un madrelingua.
La title track si rivela ancora più abbagliante e cocente, sfoderando una coltre di chitarre assordante che investe, avvolge e acceca come un raggio fotonico. Il cantante racconta qui la scena che gli ha ispirato titolo e concept del disco: siede in macchina in una stradina losangelina fitta di vegetazione e villette opulente, fissa una ragazza che prende il sole sprofondata nell’erba del suo giardino. La bellezza di una scena in apparenza così semplice è per Clarke rivelatoria: non avrà mai una vita così spensierata, incapace com’è di sbrigliarsi dalla sua umanissima trappola di bugie, incomprensioni, inettitudine. L’andamento del brano è quello tipico dei nuovi Deafheaven: a una parte assordante segue una breve, estatica pausa. Ma il contrasto è qui parossistico, ancora più accentuato che nelle altre parti del disco. Ad ogni sosta corrisponde una discesa ancora più ripida e violenta in un nuovo abisso black metal.
Molto legata, invece, agli stilemi strutturali post-metal di Roads To Judah, “Vertigo” sfiora il quarto d’ora di durata avvicendo con un crescendo lento, ma letteralmente verticale, e sorprendendo con una muscolosa sezione centrale che fa impennare il brano in un tripudio di fraseggi di chitarra di estrazione thrash metal. Non è meno assordante la chiusura affidata a “The Pecan Tree”, undici rocamboleschi minuti destinati a trovar pace soltanto verso il finale.
Da molti considerato il capolavoro della band, Sunbather è certamente il suo lavoro più famoso e, a conti fatti, accessibile – perlomeno grazie ad alcune delle sue parti prese singolarmente. Insieme al suo predecessore, sfoggia un equilibrio tra le sezioni shoegaze e black metal che la formazione raramente raggiungerà in futuro, propendendo, a seconda del caso, per un genere o per l’altro.
Dopo il successo di Sunbather, una vera e propria orgia di critiche positive, New Bermuda non può non risultare il disco più atteso della band. Ad aspettare i Deafheaven al varco non ci sono, però, soltanto i fan conquistati con il loro ormai istituzionale sophomore, ma anche una folta folla di detrattori, principalmente fan della prima ora e metal head, delusi più dal successo presso il pubblico hipster che dal presunto alleggerimento del sound.
Freschi di un tour trionfale in giro per il mondo, questa volta Clarke e McCoy decidono di registrare il disco con la band, la cui line-up vedeva confermati Mehra alla chitarra ritmica, Clark al basso e Tracy alla batteria, oltre ovviamente a Shirley alla produzione, il quale, ad oggi, ha messo mano su ognuno dei cinque dischi della band. La distribuzione, invece, è questa volta affidata alla Anti-.
A ben vedere, anche in questo terzo capitolo della band gli ingredienti sono sostanzialmente gli stessi di sempre, ovvero post-metal, black metal e shoegaze. Ora alternati, ora fusi a freddo nel blackgaze. Ma le proporzioni degli elementi utilizzati, il missaggio e l’indugiare su toni ancora più cupi che in passato fanno del terzo disco dei Deafheaven una creatura profondamente diversa dalle due che l'avevano preceduta. In sintesi: è l’album più metal e più gotico della formazione statunitense, elemento che spicca già dalla tetra copertina impressionista (un oscuro dipinto a olio di Allison Schulnik).
La maggiore propensione della ricetta dei Deafheaven verso il metal si deve certamente alla presenza in sala di Shiv Mehra, che piazza nelle canzoni una discreta dose di riff thrash e sludge (“Brought To The Water”, “Luna”, “Baby Blue”), ma anche alla maniera in cui Shirley ha missato il disco, con la voce di Clarke molto più in evidenza, meno ingoiata dalla magmatica massa sonora, oltre che utilizzata dal cantante in maniera molto diversa. Se nei dischi precedenti, il frontman cantava come un’anima dell’inferno in preda a indicibili pene, che urla fino a sfondarsi la laringe, in New Bermuda sfodera un’intonazione più incalzante e mefistofelica. E’ dunque egli stesso il diavolo.
La mutazione di Clarke si nota un po’ ovunque, ma è ovviamente nella closing track “Gifts For The Earth”, grazie ai rifulgenti e ariosi arrangiamenti shoegaze, che ruba davvero la scena.
Di contro, in alcuni sue sezioni, New Bermuda rivela però il lato sognante ed etereo dei Deafheven in una maniera finora mai così trasparente, tanto da rappresentare il seme della svolta full-shoegaze che la band avrebbe operato nel 2021 con Infinite Granite. Al centro della cangiante “Luna”, sotto forma di adamantini arpeggi dream-pop, nella lunga introduzione di “Baby Blue”, come sul finale di “Come Back”, che trasforma uno dei più truculenti assalti blackgaze dei Nostri in una danza celeste guidata da chitarre che volteggiano nell’etere e un basso placido e pastoso.
Il brano manifesto di un disco così multiforme e in un certo senso schizofrenico è certamente “Baby Blue”. Un capolavoro strutturato come un viaggio del terrore tra i generi cari ai californiani. Si parte con il freno tirato da una lunga introduzione dream-pop, si approda poi a un’ossessiva sezione post-punk con le chitarre che riverberano ossessive nel vuoto. Poi, dopo una slavina black metal, ecco Mehra scatenarsi in un turbine di assoli degni del suo idolo Kirk Hammett, poi, ancora, lanciarsi in un bombardamento di borbottanti riff thrash.
In New Bermuda manca forse un po’ di coesione, con i brani più slegati di quanto non lo fossero quelli degli altri dischi. La band è tuttavia ancora al top della sua forma e, pur lasciando affiorare più che in passato le sue derivazioni, suona ancora dannatamente personale e tremendamente avvincente.
2017 – 2021: voglia di cambiare
Dopo il successo di New Bermuda e la sempre costante attenzione del pubblico sui live della band, questa decide di registrare tutte le prove successive nella sua formazione a cinque. Con la sola sostituzione del bassista, via Prine e dentro Chris Johnson, ormai i Deafheaven non sono più Clarke e McCoy con l’aggiunta di turnisti, ma un vero e proprio quintetto.
Il periodo successivo alla prima micidiale triade di dischi dei Deafheaven è segnato dalla costante voglia, quasi una necessità, di confondere la propria fanbase, sgretolare di volta in volta tutte le sue certezze. Nonostante i risultati alterni, possiamo dire che la meccanica ha per ora prodotto un bilancio positivo.
Parlando di New Bermuda, dicevamo che si tratta di un disco forse non riuscito perfettamente come i due che lo hanno preceduto, un lavoro in cui, però, i guizzi da fuoriclasse della formazione americana e qualche visibile novità apportata al sound in sede di produzione mantengono alta l’attenzione, permettendo di raggiungere vette emotive non dissimili da quelle di Sunbather. In un certo qual modo, una temporanea china era stata imboccata. Fortunatamente l’avvallamento qualitativo della produzione della band di San Francisco vi permarrà soltanto per la durata di Ordinary Corrupt Human Love.
Nonostante l’evidente voglia dei Deafheaven di sparigliare le carte in tavola, il loro disco numero quattro manca della deflagrante emotività dei dischi che lo hanno preceduto e pecca di un sound troppo ondivago che manca consistentemente la quadra.
“You Without End” è invero un pezzo sorprendente: un voluttuoso cantato femminile schiaffato in primo piano, virtuose trame hard rock che si levano da un giro di pianoforte rubato ad Adele… solo qualche minuto dopo, nascosto da tutto questo melodiare, fa finalmente capolino lo scream da demonio in pena di George Clark. L’equazione Deafheaven è qui completamente capovolta. Dove una volta era la melodia a dover attraversare strati e strati di distorsioni nero pece per intravedere il cielo, troviamo uno scenario completamente opposto: è quest’ultima a opprimere, a schiacciare e quindi ad attutire la brutalità. Un inizio ad effetto? Sicuramente. Un pezzo di cui ricordarsi? Probabilmente no.
La seguono due numeri black metal piuttosto ordinari, “Honeycomb” e “Canary Yellow”. Tra gli strilli e gli sciami di chitarre a zanzara di quest’ultima, volteggia un coro da stadio; ancora una novità, ancora piuttosto innocua. “Near” è invece il classico ballatone atmosferico che ogni nuova band shoegaze potrebbe scrivere tentando di portare a casa la prima ballad struggente: chitarra acustica riverberata, assolo col tremolo che fa lo slalom fra le nuvole, cantato sconsolato. Peccato che i Deafheaven non siano una band shoegaze alle prime armi.
Nei dieci minuti di “Glint”, i Nostri avvicendano deflagrazioni black metal a intrecci di arpeggi post-rock, praticamente il loro territorio, la combinazione che ne ha fatto la fortuna, ma tutto appare sfilacciato, come in un patchwork impreciso. “Night People”, nel quale compare la sciamana Chelsea Wolfe, è invece un bel numero di pop polveroso, dove le due voci camminano a braccetto in una dolce notte di chitarre al neon e rugiada di pianoforte.
Insicuro, imballato: sono questi i primi aggettivi che vengono in mente ripensando a Ordinary Corrupt Human Love del 2018 – ad oggi unico, vero passo falso dei Deafheaven. Un disco di sette brani, in cui l’istituzione blackgaze di San Francisco quasi gridava la necessità di svoltare, di deragliare dai suoi binari metal, da un linguaggio che essa stessa aveva contribuito a fondare. A frenarli è stata probabilmente la necessità quasi programmatica, da statuto, di stupire, di generare qualcosa che suonasse, se non inaudito, almeno originale. Coesistevano, così, inutili e arditi accostamenti tra black metal e giri di pianoforte strappati di peso da un’ipotetica canzone di Adele. Roba che non stava bene insieme tre anni fa come, a riascoltarla, oggi.
Quasi scioccanti, specie per chi dai Deafheaven brama brutalità, i tre singoli che hanno anticipato Infinite Granite (che della band è il quinto disco) mostrano, invece, una band libera dalle pastoie, completamente a suo agio nelle nuove vesti. Insieme all’atavico bisogno di sperimentare in nuovi e arditi accostamenti, Shiv Mehra ha riposto nel baule le chitarre a zanzara cruciali del black metal, per fare del suo strumento il baricentro di uno shoegaze così puro che dalla sua band non ce lo saremmo mai aspettati.
Se “The Gnashing” è comunque una discreta mazzata dietro al collo (nulla comunque che non avrebbero potuto registrare i Nothing, perlomeno in termini di onda d’urto sonora), “In Blur” si apre tra riverberi sognanti in zona “Souvlaki” e nelle strofe sfoggia adamantini arpeggi jangle. Per non parlare della successiva “Great Mass Of Color”, così autunnale e sfacciatamente indie-pop da far venire in mente i Durutti Column.
La più grande trasformazione non è però nemmeno quella di Mehra, perché in Infinite Granite a essere totalmente irriconoscibile è George Clark. Salvo rarissime e ficcanti sortite (“Villain” e il clamoroso finale di “Mombasa”), il cantante lascia a casa il suo proverbiale e lancinante scream, per sfoggiare, invece, una voce limpida, emotiva e controllata. In “Shellstar” le sue parole sono piume che volteggiano tra le onde dei feedback, in “Great Mass Of Color” la voce è più decisa ma mai completamente solida, mentre in “The Gnashing” propone un ritornello da singalong istantaneo - ovvero l’ultima cosa che ci saremmo aspettati da uno screamer purosangue come lui.
Egregiamente suonato, solido ed emozionante, il disco si fa godere senza necessitare di troppe inversioni di marcia o frenate brusche (l’intermezzo ambient “Neptune Raining Diamonds”), imponendosi come il loro miglior lavoro dopo la fondamentale doppietta blackgaze Roads To Judah/Sunbather.
Il fatto che gli otto minuti della conclusiva “Mombasa” culminino tra scream, batterie e chitarre infernali, per farne un brano davvero a un passo dal black metal di un tempo, ci priva però di ogni certezza sul futuro della band. Dandoci a pensare che forse Infinite Granite è soltanto una parentesi celestiale tra un inferno e l’altro e che per il futuro abbiamo da aspettarci nuove, lancinanti dannazioni.
Al contrario di quanto accadeva nell’incerto Ordinary Corrupt Human Love, in Infinite Granite osserviamo la band rinunciare ai propri tratti distintivi più peculiari, cimentarsi dunque in una formula sonora già codificata e consolidata e, ciononostante, scrivere grandi canzoni. In un certo modo è dunque proprio questo quinto disco a certificare, a ribadire la statura della formazione americana.
Tra i due dischi, nel 2020, i Deafheaven, con l’intento di celebrare i propri dieci anni di storia pubblicano il loro primo live album, 10 Years Gone. Registrato agli Atomic Garden Studio East di Oakland in California, il disco ripropone gli episodi più rumorosi del repertorio della band (escluso, ovviamente, Infinite Granite) e riesce a catturare con successo l’energia e la violenza dei suoi live veri e propri.
Roads To Judah (Deathwish, 2011) | 8 | |
Sunbather (Deathwish, 2013) | 8,5 | |
New Bermuda (Anti-, 2014) | 8 | |
Ordinary Corrupt Human Love(Anti-, 2018) | 5,5 | |
Infinite Granite (Sargent House2021) | 7,5 |
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