Chiacchieratissimo ancor prima di essere "legalmente" reperibile nei negozi specializzati, "Ashes Against The Grain", terza prova sulla lunga distanza per la band di Portland, tocca un nuovo livello stilistico, andando a rappresentare un altro appassionante capitolo nella loro epopea doom/gothic-metal dalle marcate tinte folk. Mediando tra il black epico degli Ulver, il doom depresso e malinconico dei Katatonia e le recentissime infatuazioni per Goodspeed You Black Emperor!, Isis, Pelican e per certo progressive tedesco e "nordico" (Amon Düül II, Thule, Anekdoten), John Haughm (voce e percussioni), Don Anderson (chitarra, pianoforte), Jason William Walton (basso) e Chris Greene (batteria) superano in compattezza e ispirazione il precedente "The Mantle" (disco acclamatissimo ma che, almeno a detta di chi scrive, mostrava qualche lungaggine di troppo), finendo, invece, per riavvicinarsi a un’opera più compatta come quel "Pale Folklore" (1999) che, a dirla tutta, già conteneva in nuce gran parte delle soluzioni che oggi potrebbero apparire come delle novità assolute.
Il vero scarto stilistico, semmai, è rappresentato, proprio da un più consapevole approccio progressivo e, per certi versi, da una certa ascendenza post- di cui le nuove influenze sopracitate (confermate dallo stesso Don Anderson) sono dirette responsabili. Così, nel bel mezzo di questa estate rovente, "Ashes Against The Grain" finisce per emanare un fortissimo senso di desolazione, di malinconia terminale, di austera introversione invernale. Meno acustico e più elettrico, in definitiva più "metal" del suo predecessore; ma anche solennemente fiero di essere disperato, come immediatamente traspare dall’ incipit sconfinato di "Limbs", che, da una lunga intro in bilico tra elettricità e quiete acustica, trova nello scream di Haughm il modo migliore e più diretto per trascinarci nel limbo di un suono tormentato ma mai disposto a barattare la bellezza per il puro gusto di risultare scostante e malefico.
Il riff che lancia "Falling Snow" è quanto di più spaccacuore si possa immaginare: marziale, ma col piglio altezzoso di chi la vita usa prenderla a calci in culo. Molto vicino allo stile dei Novembre, questo monolite scintillante di black-metal corale e "spaziale" (per la sua tensione trascendente) dimostra un’enfasi armonica e una carica dinamica/cinematica tale da esaltare quel caratteristico lirismo sospeso tra rabbia e dolcezza che è uno degli elementi più tipici di questa musica fascinosissima.
A seguire, le lande dimenticate, glaciali e "austere" di "This White Mountain On Which You Will Die", un minuto e poco più di abbandono cosmico, e, in fin dei conti, vero e proprio interludio prima della lunga escursione di "Fire Above, Ice Below", che rimanda direttamente alle atmosfere eteree e distorte di "The Mantle". E’ un brano magistrale per il modo in cui riesce a valorizzare ogni singola nota, ogni singolo strumento, ma anche per quel suo continuo evocare terre e tempi lontani (non si annidano, forse, tra le linee di chitarra anche diluitissimi aromi western?), nature morte, ore sterminate, giorni inceneriti. E’ forse questo, chi può dirlo?, il senso più "forte" del grido sussurrato di Haughm… Un grido che ha saputo, man mano, guadagnare in incisività e "pulizia". E, dalle onde che rovinano sul bagnasciuga, senza soluzione di continuità, muove "Not Unlike The Waves", probabilmente il bignami sonoro per eccellenza del suono Agalloch. Aperto in stile Isis e cantilenante black alla maniera dei maestri Ulver", "Not Unlike The Waves" mostra anche qualche debito nei confronti di Burzum, del suo oscuro e visionario modo di approcciare la materia. E’, in fin dei conti (e gli appassionati se ne accorgeranno), un ritorno alle origini, un rimettersi in cammino verso le primissime prove del demo "From Which Of This Oak" (1997).
Ormai lo sappiamo bene: l’universo sonoro e ideologico degli Agalloch non conosce soluzioni definitive, non sa decidersi tra magniloquenza titanica e abbandono nichilistico. E’ un modo per evitare scorciatoie di comodo, verità preconfezionate, mortifere soluzioni vitali. Li si ascolti dondolare malinconicamente sublimi lungo le tre parti della suite conclusiva, "Our Fortress Is Burning"; li si accompagni con la forza di un’utopia destinata a crollare, lungo una linea melodica di chitarra che, in un modo o nell’altro, si scopre avere un non so che di pinkfloydiano; si ascolti il nubifragio sonico in cui la voce duella con le distorsioni, in cui il tormento è più forte di qualsiasi accusa di "falsificazione" emotiva. E, infine, se ne assapori la profondità spirituale mentre si finisce per morire disintegrati tra un precipitare di galassie e uno sfrondarsi di stelle, lungo un abisso sempre più profondo, sempre più spettrale.
Quanto al resto, superate le sterile diatribe su cosa debba rappresentare ("solo" un grande disco, dal cuore infranto, ma non un capolavoro assoluto) e cosa possa generare (speriamo non dei cloni inutili), "Ashes Against The Grain" è senza dubbio uno dei dischi più intensi e sinceri dell’anno. Tanto vi dovevano. Tanto vi basti.
31/07/2006