Prodotto da John Zorn (che li ha accolti a braccia aperte sulla sua Tzadik), il disco apre alla grande con “Escarbando” (special guest, Nicolas Stocker alla batteria), un pout-pourri di funk brasileiro, frenesia pop e sogni d’avantgarde gioviale via Ambitious Lovers. Con Seb Rochford dietro le pelli, “Coal Mine” imbocca, invece, la strada di una no-wave fanciullesca: i ritmi tripudiano, le voci e l’elettronica giocano a rincorrersi, strutturandosi nella destrutturazione, prima che la coda squilibri, non sbrogli, la matassa. L’avant-rock tropicalista di “Self” ingloba, per qualche secondo, anche un beat technoide, ma è solo l’ennesimo indizio di un gusto cannibale che, in “Pagan’s Storm And The Sea Ballad”, spingerà questa materia volutamente informe a specchiarsi nel folk, salvo poi abbandonarla tra le nebbie di una brughiera popolata di fantasmi che affidano alla voce le proprie sensazioni, mentre strimpellano uno charango o sbuffano dentro legnetti pazientemente lavorati.
Il tango in 13/8 di “The Cage” (guidato dalle bacchette di Gidon Carmel) è invece una roba che sarebbe piaciuta ai Residents più sbarazzini, senza però scontentare i Rip, Rig & Panic. E se lungo i solchi di “The Gathering” si risale alle magiche alchimie di danze millenarie e in “Outchant” anche le voci giocano a rimpiattino con i ritmi, “Gualchován” viene scorrazzata da una saltellante drumbox verso l’ultima evocazione di un universo parallelo in cui la voce della Heidelberg e il flauto di Velasierra condividono la stessa, misteriosa essenza.
(09/06/2020)