“Echo” è un album rimasto nel cassetto a lungo, essendo stato inciso nel 2019 tra New York, Los Angeles e l’Italia. Per fortuna le canzoni di Indigo Sparke, al pari del freak-folk anni 60 e 70 di Linda Perhacs e Vashti Bunyan, sono prive di una dimensione temporale definita, ma c’è spazio anche per le contemporanee liturgie di Marissa Nadler e Julia Jacklin.
Fragile, a volte indolente ,“Echo” si contraddistingue per una natura oscura e inquieta che grazia una scrittura non particolarmente incisiva. L’organico della strumentazione è ridotto all’osso, silenzi e tormenti si affidano a una voce che sussurra e mette in moto una poetica essenziale.
Il grondare di accordi acustici, fluenti come un ruscello, dona bellezza alle intuizioni melodiche più solerti (“Colour Blind”), mentre ad aspri riverberi di chitarra elettrica spetta il compito di alzare la temperatura nell’incandescente e grezza “Golden Age”.
Ma è nelle ballate più tenebrose che Indigo Sparke trova una dimensione lirica più personale e definita, come nella devastante e struggente “Bad Dreams” o nella spoglia incursione nel cantato/recitato della spettrale “Dog Bark Echo”.
Le influenze sono costantemente visibili: la cantautrice in verità non le occulta né le stempera con inutili abbellimenti. Brani come “Undone”, “Carnival” e “Everything Everything”, quest’ultima contraddistinta da interessanti dissonanze di pianoforte, sono figlie di “Blue”, come lo sono forse altre centinaia di canzoni folk contemporanee. Ed è in questa normalità che l’autrice australiana prova a mettersi a nudo, cercando di stemperare la prevedibilità della scrittura con spoglie attitudini strumentali e vocali.
Anche i silenzi e gli spazi vuoti alla fine concorrono alla bellezza di queste nove gracili confessioni, la cui forza penetrante è garantita dall’autenticità più che dalla originalità. “Echo” è solo un primo passo per Indigo Sparke nel mondo della canzone d’autore, un disco non privo di incoerenze e indecisioni, a suo modo maturo e accattivante.
(17/03/2021)