S'è fatto un gran parlare di salute mentale in musica in tempi recenti: la complessa situazione di Britney Spears, l'overdose di Demi Lovato, le confessate fragilità di Dan Reynolds e dell'ex-Destiny's Child Michelle Williams, per tacere ovviamente di casi finiti in tragedia, come Chris Cornell, Chester Bennington e la stella del k-pop, Jonghyun.
Impossibile lasciare fuori dalla conversazione anche Justin Bieber, ma in questo caso almeno, l'aiuto della fede e della moglie gli sta assicurando una ritrovata sobrietà e il messaggio di "Justice" non potrebbe essere più chiaro. Certo, non è immediatamente facile stabilire se si tratti di un tentativo da parte dell'autore di scappare dall'opprimente telenovela della propria vita, oppure un altro capitolo furbescamente voluto dal suo management per mettere tutti a tacere. Ma una cosa è certa: dopo l'ormai ampiamente dimenticato "Changes" appena un anno fa, Bieber non ha perso un minuto di pandemia e il nuovo album arriva impacchetato fino all'orlo di confessioni e buoni propositi in forma di strofe, ritornelli e slanci produttivi. In un certo senso, "Justice" è piuttosto il seguito di "Purpose".
Certamente, oggi come allora, le sottigliezze non sono mai state il punto focale dell'opera: qui troviamo tre singoli che inscenano altrettante storie di universale dramma umano nel tentativo di abbracciare il pubblico durante un anno particolarmente difficoltoso. ll risultato varia a seconda di come vi posizionate di fronte a tali escamotage narrativi, ma Bieber evita di mettersi in prima persona; eccolo sul morbido blues elettronico di "Holy" a inneggiare alla fede tramite una serie di cori gospel, mentre il videoclip racconta la storia di una coppia disoccupata e finita in strada, con tanto di finale alla Giuseppe e Maria prima dell'arrivo di un Re Magio in tuta militare - ficcante ai limiti del comico la presenza di un Chance The Rapper ormai più meme che rapper.
Nella palleggiante tensione di "Hold On", giocata su un giro melodico simile a "Somebody That I Used To Know" di Gotye, troviamo l'autore intento a rapinare una banca pur di aiutare la propria fidanzata, malata terminale e senza assicurazione sanitaria. Conclude il terzetto il soffice pop elettronico di "Anyone", storia stavolta a lieto fine di un pugile che affronta la sfida decisiva della propria carriera.
C'erano semmai brani migliori da lanciare in anteprima; "Deserve You" arriva corredata da una roboante batteria alla Phil Collins, mentre "Somebody" e "Ghost" sono puro The Weeknd - la prima per una soffusa base anni 80, la seconda più per l'enfasi melodica. Fa specie "Die For You", altra efficace confettura segnata da una ritmica che cambia di stile con ogni segmento senza zoppicare - a tratti, sembra di sentire una fusione tra Neon Indian e Supergrass.
Non solo, Justin torna indietro al fenomeno tropical house da lui stesso portato al successo cinque anni fa: sia "Peaches" che "Love You Different" suonano come brezze marine per un necessario tocco di spensieratezza. Meno convincente magari la troppo ripetitiva "Loved By You", con la presenza di un Burna Boy davvero invisibile. Il motivetto radiofonico "As I Am" potrebbe essere una vecchia canzone di quando Justin era ancora bambino e può sfiorare l'irritante, ma i pastosi cori a cura di Khalid donano al pezzo una certa sostanza.
Con amore, fede, e la moglie Hailey sempre a fianco, Justin si concede pure qualche nuda ballata; accompagnata da un semplice giro di chitarra acustica a richiamare vecchie collaborazioni con Ed Sheeran, "Off My Face" è un inno alla ritrovata sobrietà dopo anni di alcol e pillole, quel timbro vocale, così sottile e dolciastro, adesso suona particolarmente calzante. Le morbide partiture di "Unstable", invece, fanno da sfondo a un'interpretazione inusitatamente rauca e sentita.
Ma il colpo basso Justin lo riserva a fondo scaletta: su uno scheletrico accenno di piano, "Lonely" è la canzone che non vorresti mai dover affrontare, lo scomodo punto di vista di un ragazzo che è sopravvissuto per raccontare il proprio lato della faccenda con disarmante semplicità, colorando le proprie dinamiche personali con un taglio più trasversale:
E se avessi tuttoC'era bisogno d'infilare un paio di spezzoni parlati di Martin Luther King Jr in mezzo a un disco del genere? Assolutamente no, ma evidentemente era necessario timbrare il cartellino delle politiche da prima pagina - scelta ruffiana da perfetto brand americano, ma diciamocelo francamente: se credevate di trovare in "Justice" una risposta a chissà quale problema sociale, siete o pazzi oppure talmente succubi della cultura della celebrità da confondere il ruolo di una popstar con quello di un organo governativo. Sarebbe bello se anche la Def Jam ne prendesse atto.
Ma nessuno da chiamare?
Forse allora mi conosceresti
Perché ho avuto tutto
Ma nessuno sta ascoltando
Ed è tutto così fottutamente solitario
Sono solo, solo...
25/03/2021