L’aver debuttato nel 2021 con uno dei lavori più significativi dell’anno (nella top 20 di OndaRock) ha costretto a puntare i riflettori dritti verso ogni passo da quel momento compiuto dai Dry Cleaning.
Non sono solo orpelli e manifestazioni di giubilo quelli che seguono tappe artistiche di così alto livello. Convincere in modo oggettivo critica e pubblico cela anche cospicue insidie, prima fra tutte quella delle conferme o, per i più coraggiosi, il voler repentinamente attuare una rischiosa metamorfosi stilistica.
In realtà, la storia insegna che il secondo album è quello dove si ricerca sostanzialmente un consolidamento dello status acquisito. Proprio questo è ciò che emerge, in maggior misura, dai solchi di “Stumpwork”, l’atteso sophomore del quartetto londinese.
La stesura di queste undici tracce è iniziata ancor prima della pubblicazione del citato disco d’esordio, con il fermo intento dei nostri, sempre coadiuvati in produzione dall’imprescindibile John Parish, di dedicare alla realizzazione tempi decisamente maggiori rispetto al recente passato.
Lo schema tattico di base prevede infatti alcune apprezzabili novità. La base sonora prettamente post-punk costruita da Tom Dowse (chitarra), Lewis Maynard (basso) e Nick Buxton (batteria) è a tratti ipnotizzante. Lo spoken word di Florence Shaw imperversa, con quel modo quasi indifferente, laconico e disinvolto di porsi al cospetto dell’ascoltatore per stendere i propri concetti (i testi sono scritti integralmente da lei) proiettati a filtrare numerosi aspetti della vita moderna, frutto di riflessioni personali, ansie o di situazioni realmente vissute e osservate con grande acume, talvolta anche con quel pizzico di ironia o sarcasmo che già in “New Long Leg” si era insinuato con lodevole costrutto.
Le sequenze chitarristiche assumono sembianze thriller nell’appostarsi dietro angoli reconditi, facendo di colpo irruzione e regalando tocchi d’imprevedibilità.
La Shaw è la costante figura leader; è facile concentrarsi sugli intriganti dialoghi da lei espressi, ma le svolte armoniche cangianti che gli altri componenti riescono a fornire lungo il percorso, in quest’aspetto molto più a fuoco rispetto al debutto, non fanno alcuna fatica ad agguantare con fermezza l’attenzione dell’ascoltatore, ulteriormente accompagnate da alcune scelte stilistiche e inserti armonici mai armeggiati in precedenza.
Il sottofondo funk di "Hot Penny Day", le divagazioni nonsense di “Driver’s Story”, la freschezza simil-jazz di “Anna Calls From Arctic”, l'indie-rock che guida "Don't Press Me", l’energia à-la Sonic Youth di “Liberty Dog” e “Iceberg”, o anche quando la Shaw recita nel corso del foot tapper "Gary Ashby" (postludio della loro hit “Scratchcard Lanyard”), sono perfette testimonianze di quanto “Stumpwork” agghindi la propria indole con inconsueti look, per una band che davvero in tanti attendevano al varco, non ritenendola in grado di scandagliare con efficacia nuovi orizzonti.
Il pericolo che pedina l’artista intento alla realizzazione del secondo album è un’entità meno eterea di quanto si possa immaginare. E’ altrettanto vero, però, che i Dry Cleaning sono riusciti ad aggirare questo critico ostacolo con estrema scioltezza. “Stumpwork” è dotato di una qualità d’insieme che supera abbondantemente quasi tutto il materiale esibito in precedenza, un’opera dove il loro peculiare post-punk è spinto a un livello successivo, dimostrando di essere coinvolgente non solo a intervalli, ma per tutti i suoi 46 minuti di durata.
28/10/2022