E’ ormai opinione diffusa quanto sia rilevante, vitale e ricca di talenti la nuova scena jazz londinese: finalmente ecco arrivare i primi seri riconoscimenti. E’ un gran bel colpaccio, quello messo a segno dagli Ezra Collective in occasione del Mercury Prize 2023, il prestigioso premio che va al miglior album pubblicato negli ultimi dodici mesi fra Regno Unito e Irlanda, assegnato da una giuria tecnica composta da addetti ai lavori (quest’anno, fra gli altri, c’erano Anna Calvi e Jamie Cullum, tanto per dire…). Mai prima d’ora la scelta era caduta su un disco di area jazz, segno di quanto il valore e l’influenza di tale scena risultino oggi ampiamente riconosciuti. Una scena composta da artisti molto diversi fra loro: Sons Of Kemet, The Comet Is Coming, Kokoroko, Ezra Collective, Nubya Garcia, Moses Boyd, giusto per citare alcuni fra i nomi più autorevoli, esprimono ognuno una forma personale di meticciato, dove l'unico elemento comune è la radice jazz dal quale tutto prende il via.
Partendo da questa radice comune, gli Ezra Collective aggiungono non soltanto un vasto ventaglio di contaminazioni ma anche una narrazione concretizzata attraverso parti vocali affidate a un nutrito gruppo di ospiti, scelti in maniera molto accurata. “Where I’m Meant To Be”, il loro secondo album, si presenta idealmente diviso in tre parti, delle quali la prima spicca per essere la più avventurosa, priva di confini e iper-ritmata. Il sound prodotto è frutto di un poderoso crossover sia con l’hip-hop, grazie alle presenza di Sampa The Great (“Life Goes On”, immersa in un perverso e riuscito mix che sposa afrobeat, samba e reggaeton) e Kojey Radical (“No Confusion”, suoni urban e di nuovo afrobeat in stretta connessione) sia con i ritmi caraibici espressi nell'esplosiva salsa da big band cubana “Victory Dance” (non poi così difficile visualizzarvi un’orgia di corpi che ballano) e nelle derive Jamaican style, fra dub e ritmi in levare, di “Togetherness” ed “Ego Killah”.
La sezione centrale assume connotazioni più stilosamente jazz, concretizzate all’interno di “Smile”, che riprende il tema del celebre brano composto da Charlie Chaplin per “Tempi Moderni" nel 1936, eseguito negli anni - fra gli altri – dal grande Nat King Cole, “Live Strong” e - poco più avanti - “Belonging”.
La parte finale suona meno travolgente, ma mai priva di slanci eclettici, come nel caso di “Never The Same Again”, che a metà del cammino muta registro in maniera repentina, trasformando un mood notturno in danza sfrenata. Una forte ventata di nu-soul entra grazie agli interventi di Emeli Sandé e Nao, che nobilitano rispettivamente “Siesta” e la conclusiva “Love In Outer Space”, personalissima rilettura di un pezzo firmato a suo tempo da Sun Ra.
Nonostante l’eterogeneità dei contenuti, “Where I’m Meant To Be” si impone come disco solidissimo, un giro intorno al mondo compiuto da musicisti straordinari, alcuni dei quali si stanno ritagliando percorsi interessanti anche all’interno di altri progetti. Pur compiendo un pezzo di bravura dietro l’altro e possedendo una naturale predisposizione per l’improvvisazione, la scelta di estrema libertà stilistica compiuta dal quintetto viene convogliata in maniera efficace all’interno di un formato canzone quasi sempre piuttosto snello.
Segnalazione doverosa per alcuni interventi in modalità spoken word disseminati lungo il disco, appartenenti al regista Steve McQueen (“Words By Steve”), a TJ Koleoso, il bassista del collettivo (“Words By TJ”), e al batterista Tony Allen, recentemente scomparso, un mito che all’inizio di “No Confusion” rilascia la fondamentale dichiarazione d’intenti “I’m playing jazz my way”, slogan che racchiude e sintetizza alla perfezione il reale spirito che anima l'intero lavoro.
12/09/2023