Le incalzanti pulsazioni della vecchia house, muscolose impalcature techno azionate come ali meccaniche, e un fluttuare di sax, voci e percussioni a fornire lo spettro di un'anima nostalgica, ruvida e vitale. Luogo? Detroit, ovviamente. Protagonista? Robert O'Bryant in arte Waajeed, artista tuttofare nonché ex-militante nel mondo dell'hip-hop accanto a J Dilla. Risultato: "Memoirs Of Hi-Tech Jazz", una spassionata svolta dance che esce dritta dalle casse per arrivare al cuore dell'ascoltatore come un treno in corsa. Sull'onda di altri illustri concittadini del calibro di Moodymann, Theo Parrish e Omar S, anche Waajeed incarna con naturalezza l'eccitante e un po' incazzoso spirito fai-da-te di una città che ne ha viste di tutti i colori ma che rifiuta di arrendersi. Tra periferie abbandonate e costosi progetti di riedificazione, cani randagi e scantinati adibiti a mo' di club, Detroit è quel luogo dove squallore e opportunità viaggiano di pari passo, basta aver voglia di rimboccarsi le maniche e la colonna sonora della propria realtà si scrive da sola.
Certo, in mano a Wajeed la materia elettronica riceve un trattamento più sofisticato rispetto ai burberi colleghi di cui sopra - alcuni svolazzi di ottoni e congas potrebbero definirsi quasi french. Ma "Memoirs Of Hi-Tech Jazz" è soprattutto un concept, che tocca temi politici, religiosi e personali, pur in maniera mai pedante e con un occhio sempre puntato al modo più istintivo per esprimerli: il movimento del corpo in pista da ballo.
L'ascolto si apre con ben due (mini) introduzioni e un primo brano interlocutorio, manco fossero ancora gli spaziosi anni Novanta del leggendario "Romanworld"; dapprima troviamo il manifesto d'intenti della title track e subito dopo le partiture di violini sovrastate dai canti di protesta e le sirene della polizia di "Rouge", due momenti ad alta tensione che danno a "The Ballad Of Robert O'Bryant" il tempo di srotolarsi su curiose striature acid jazz e un ritmo da carnevale nel quartiere francese di New Orleans.
Quando finalmente arriva il singolazzo "Motor City Madness", col suo muscoloso beat techno rivestito col caucciù, la trappola tesa da Waajeed si chiude attorno alle caviglie e l'ascoltatore viene trasportato via sulle ali dell'immaginazione. Ecco "Let's Give It Up", "Snake Eyes" e "Right Now", tre saggi di tech-house lievemente inacidita ma sempre trattata coi guanti, al contempo rilassata e scattante. Un nuovo intermezzo da camera - "Good Trouble" - avvia l'ascolto verso il terzetto conclusivo: il sommesso tocco sophisti di "Keep It Coming", l'umbratile cielo grigio in stop/go di "The Dub", e l'arioso giro di piano della commovente "Remember", sostenuta da linee di basso intinte nel petrolio e da un continuo dialogo tra fiati e sample.
Tra ritmi e colori, "Memoirs Of Hi-Tech Jazz" è un ascolto frizzante e genuino, con i sentimenti appuntati in bella vista sul bavero della giacca nonostante la natura prettamente strumentale dell'opera. Mirabile, poi, il modo in cui un album realizzato sostanzialmente in digitale riesca a sfregare le corde umane con la grazia di un'arpa da concerto, donando calde vibrazioni che risuonano dall'orecchio fin dentro la cassa toracica. Lo spirito inquisitorio del jazz, la memoria del soul e l'incrollabile speranza del gospel rivivono dentro un'opera impantanata sino al midollo nell'esperienza afroamericana, ma il cui messaggio è piuttosto a raggio universale.
A quarant'anni dalla nascita, house e techno sono ancora generi in grado di fornire ascolti di prim'ordine e Wajeed ne è sicuramente un abilissimo manipolatore. Ma soprattutto "Memoirs Of Hi-Tech Jazz" mostra un musicista dotato tanto di buona memoria storica circa i linguaggi della propria comunità quanto di un estro capace di rielaborarli con la giusta dose di personalità.
01/12/2022