Pensatela come volete sui Daft Punk, ma una cosa è certa: quanto a conoscenza della house e della sua storia non possono temere alcun raffronto. E se per il singolo più iconico della loro avventura a due, “One More Time”, hanno scelto la voce di Romanthony, potete giurarci che sapevano perfettamente quello che facevano. Certo, introdurre una delle più grandi menti della dance con l'apparizione in un brano altrui (anche la chiusura di “Discovery”, i dieci minuti tondi di “Too Long”, vantano la sua partecipazione) sa quasi di smacco alla carriera, considerati però l'impatto e la caratura del singolo in questione, c'è da dire che in fondo ci sono presentazioni ben peggiori. Ovunque si trovi, Anthony Way Moore può certo compiacersi che il suo lascito nella musica da ballo mondiale non si sia espresso soltanto attraverso una duratura influenza sotterranea, ma sia approdato anche a un simile apogeo commerciale, con la stima manifesta dei suoi colleghi. Anche però in mancanza dell'assalto al mondo, la concezione della house-music che ha saputo originare, la struttura e il potere concettuale con cui ha circondato la sua arte riverberano ancora oggi in moltissime produzioni, con un pilastro quale “Romanworld” che ha meglio esemplificato il potere di tale rielaborazione. Riavvolgere il nastro è una tappa obbligata....
Piccoli misteri newyorkesi
Non aspettatevi chissà quale biografia succosa, quali resoconti eccitanti associati alla figura di Romanthony, troppo geloso della sua privacy, troppo sospettoso delle intrusioni perché decidesse di condividere molto di sé col suo pubblico. Anche nelle poche interviste concesse in vita quello che traspare è una persona appassionata del proprio lavoro, devota alla sua musa, veloce a mettere da parte ogni curiosità indebita. Sono ben poche le ambizioni da rockstar insomma, malgrado l'infanzia spesa in quel del New Jersey a prendere lezioni di chitarra e lasciarsi influenzare da grandi classici del rock e del soul (Chuck Berry, Led Zeppelin, Eagles tra i tanti). Eppure, sebbene l'inizio degli anni Novanta porti Moore a stretto contatto con la sua carriera futura, l'attitudine chitarristica, il processo compositivo dietro a una canzone rock rimarranno pilastri fondamentali della sua arte. Già abbondantemente maggiorenne, libero di scorrazzare in giro per la Grande Mela, trova nell'ambiente del club un corrispettivo ideale alla sua visione musicale, un senso di libertà e di progresso tecnologico che nella rivoluzione garage di New York aveva trovato una sintesi perfetta.
Gli scampoli della disco ormai morta e sepolta, l'avanzamento di tastiere e sintetizzatori, il sentimento del gospel, il ruolo centrale della voce femminile, la queerness sempre più fiera e consapevole, l'attitudine sincretica e curiosa che hanno fatto di Larry Levan e dei suoi storici set al Paradise il prototipo assoluto del dj, del mattatore della pista. In questa temperie ricombinante, falciata dall'incubo dell'Aids, legata a doppio filo alle comunità emarginate e alle loro storie, Romanthony si muove con grande flessuosità, assorbe, apprende, si incontra con dj e producer che hanno accolto l'eredità di Levan e trasferito la sua lezione allo schiudersi degli anni Novanta. Ben più che con la scena sorella di Chicago, più vicina alle evoluzioni electro e italo-disco, il contesto che si schiude a Moore è congeniale alle sue peculiarità creative, a un percorso che aveva bisogno di simili ibridazioni per fiorire pienamente, per dare un'altra svolta alla sua irripetibile grana soul.
Detto fatto: anche per tenere sotto controllo l'intero processo creativo sin dall'inizio, nel 1991 è già tempo di imbastire la propria etichetta. La Black Male funge immediatamente come il canale primario per la distribuzione dei progetti a nome Romanthony (nonché dei tanti suoi moniker paralleli), che con “Now You Want Me” nel '92 dà già l'avvio a una carriera di grande maturità. Lo spirito garage assorbito nelle frequentazioni delle discoteche di tutta New York qui si avverte immediatamente, il basso pulsante, gli scherzi elettrici mandati in loop come portante ritmico, e soprattutto quella voce. In netta controtendenza rispetto a uno scenario che ha spesso previsto la divisione dei compiti e quindi l'affidamento, in caso di brani autografi, delle parti vocali ad altri interpreti, il timbro di Moore svetta da subito su tutte le sue produzioni, diventa la firma dell'autore che impone la sua interpretazione, offre la propria visione al pubblico.
Già da ora la visione è di quelle che segnano il passo: emotivo al punto giusto, in pieno possesso di un'eccitante ruvidezza rock ma anche sensuale come il migliore performer r&b, Romanthony dispone di un'arma micidialeì e sa come gestirla, adattarla alle più disparate circostanze. Nel cuore pulsante di un battito che pare hip-hop psichedelico, Moore passa in “Falling From Grace” dalla supplica devozionale al rap freestyle con estrema disinvoltura, trovando pure lo spazio per spigliati assoli chitarristici (in maniera non molto distante dal coevo Lenny Kravitz) e un tripudio gospel di rara esultanza. Il tutto viene confezionato senza mai perdere di vista la pista da ballo, il movimento, lo spirito comunitario di una house che sa comunicare con piani differenti. “Da Change” l'anno successivo perpetua l'amore per Martin Luther King e la sua lezione in un nuovo eccitante impiego dei suoi celebri discorsi, cavalcando il vento del cambiamento in un'euforica esplosione che monta senza mai perdere di tensione.
È con “The Wanderer” che lo stile dell'autore cementa la sua grande capacità rielaborativa, si appropria di elementi rave e di nervosi spunti techno per un momento di emotiva contemplazione, verso un passato e un presente votati al rimorso, all'abbandono, a una desolazione che non manca anche di risvolti violenti. In tutti e quattro i mix presenti nell'Ep, filtra chiaro il carattere soulful della voce narrante, il potente tocco narrativo di un canto che solo dolore e rabbia riesce a trasmettere. Questo, e l'avvento di una sintesi sonora che comincia a guardare alla lezione deep di Mr. Fingers e ad ammorbidire il dato elettrico verso influssi jazz, spostano la ricerca di Moore verso una nuova fase, un percorso dominato da un sincretismo senza freni. Per consegnarsi, infine, alla storia....
Questione di ambizione
Non è di certo un mistero che la house, tra tutti i generi che afferiscono all'universo dance, sia quello che meno si è piegato alla logica del long playing. Anche e soprattutto in tempi ben più album-centrici rispetto a quelli attuali, è sul formato singolo e sui 12'' che la house ha sempre preferito girare, conscia del fatto che ben più che una visione generale o un concept unitario, ben poco adatti a un club, è nel mix ben assestato che esprime al meglio il suo valore. Certo, sarebbero arrivati tempi che avrebbero sconfessato questo approccio, ma nella metà degli anni Novanta la situazione era ben poco favorevole a pubblicazioni sulla lunga durata. Romanthony stesso avrebbe potuto continuare tranquillamente con la sua eccitante trafila di Ep e solidificare così, traccia dopo traccia, la sua posizione nella fertile club-culture newyorkese. La pienezza della sua prospettiva, la costruzione di un vocabolario dance sempre più ricco e sofisticato non poteva però rimanere confinata all'interno di tracce sparse, o peggio ancora rendersi materiale per avidi collezionisti.
Pubblicare una compilation e dare così una parvenza di ordine ad un catalogo già piuttosto nutrito? Era un'ipotesi, già altri colleghi stavano considerando l'opzione (Kerri Chandler in primis), ma Moore decide di spingersi ben oltre. Quasi a dar credito a chi aveva cominciato a definirlo come il Prince della house (non che il paragone, sotto molti aspetti, fosse peregrino) Romanthony chiama a raccolta il suo autore interiore ed escogita un progetto che si spinge ben oltre quanto la house aveva immaginato fino a quel momento.
“Romanworld”, come a mettere sin da subito i puntini sulle I, esce per la Azuli (etichetta indipendente inglese che aveva già distribuito suo materiale nel Regno Unito) ed è una manifestazione del Romanthony-pensiero impressa con una forza che ha dello sbalorditivo. Il produttore, l'esecutore, il compositore, tutti i lati di Moore si uniscono e si compattano a tirare fuori un prodotto che va ben oltre gli scopi di una classica raccolta, per elaborare invece materiale edito e non in un flusso concettuale diretto verso le profondità della Terra, accompagnati da una guida che fa di tutto per non volatilizzare il godimento al primo cambio di direzione. Se questa non è ambizione, poco altro potrebbe esibirla.
Un balzo di fede
This should be played at high volume. You might be missing some of the benefits that stereo can provideÈ con queste due frasi che parte l'ascolto di “Romanworld”, e con esso gli oltre cento minuti di avventure comodamente distribuite in due cd (o quattro lati di vinile, se vogliamo). L'invito qui contenuto va preso alla lettera, questo è un album che deve uscire bello potente dalle casse, ha bisogno del volume per trasmettere al meglio i suoi segreti. E che, soprattutto, ha bisogno di essere ascoltato per intero, senza alcuna interruzione.
29/05/2022