Parigi, anno 2000. Sono trascorsi tre anni dal fulminante “Homework” e per Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter è giunto il momento di assestare la seconda scossa al mondo delle piste e della musica pop nella sua accezione più sfrenata. La curiosità è semplicemente alle stelle. I due francesini sono diventati in breve tempo qualcosa di ben più solido e corposo di "un gruppetto di stupidi teppisti" ("a bunch of daft punk", come furono inizialmente e sciaguratamente definiti sulla celebre rivista inglese Melody Maker) e l’attesa della prossima venuta comincia a pesare alla stregua delle più grosse celebrità internazionali. Del resto, dopo una bomba straccia classifiche come “Around The World” non poteva davvero essere altrimenti.
In questa estenuante caccia al dettaglio e all’indiscrezione di turno, a sciogliere le prime riserve è “One More Time”, futura open-track e primo singolo del lotto, la quale mostrerà fin da subito l’incredibile stato di forma del duo. A dar man forte al marasma generale è lo splendido video animato che introdurrà "Interstella 5555", film d’animazione del 2003 creato da Leiji Matsumoto interamente ispirato al secondo disco dei Daft Punk. Ciò che poi cancella definitivamente qualsiasi ulteriore scetticismo è la stratosferica capacità dei due parigini nel saper formulare melodie efficaci in grado di travolgere letteralmente chiunque. La scelta di piazzare alla voce (!) il compianto produttore house americano Anthony Wayne Moore, aka Romanthony, è certamente di quelle originali. Così come l’utilizzo del software auto-tune come correttivo vocale crea inizialmente qualche malumore. Ma è solo l’ennesima impressione fasulla ampiamente smentita dalla qualità della sostanza.
“One More Time” incarna appieno lo spirito trasformista dei Daft Punk. Ne racchiude l’essenza, in un irresistibile intarsio di maestosità house e luminosità pop. E’ un’apoteosi totale e definitiva che resisterà suprema allo scorrere del tempo. Ed è il singolo che trascinerà i due "introversi" produttori ai vertici dell’Olimpo dancefloor.
Trascorrono quattro mesi e “Discovery” entra finalmente nei negozi di tutto il mondo. Il titolo è emblematico. Da un lato, i due sembrano voler(ci) indirizzare verso una qualche esilarante scoperta. Dall’altro lato, potrebbe essere letto come un messaggio inerente la mutazione disco in atto posto ironicamente al contrario (“Very Disco”). Le due tesi si susseguono ma non si escludono. Difatti, diverse dichiarazioni in merito da parte di entrambi mostreranno la netta volontà di voler in qualche modo rivitalizzare la stessa disco-music a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, dando così sfogo a una recondita passione verso tale universo sonoro, in una sorta di riscoperta della propria infanzia e dei propri ricordi musicali. Non a caso, sono disseminati qua e là campionamenti ufficiali e ufficiosi d’ogni sorta e legati in qualche maniera al passato (Eddie Johns, Sister Sledge, Edwin Birdsong, George Duke, Electric Light Orchestra, The Imperials, Barry Manilow).
L'impatto è certamente travolgente, e offre le coordinante di una rivoluzione retroattiva che stende e disorienta. Se “Homework” aveva inseguito scie talvolta propriamente techno, rielaborate con piglio androide e all’occorrenza rese acide da una massiccia dose electro, “Discovery” rivela con accesa disinvoltura lo spirito squisitamente pop dei Daft Punk. L’attitudine retrò è ora spinta da una nuova consapevolezza, da una leggerezza kitsch che gioca con riff piacioni, campane e svolazzi sintetici (“Aerodynamic”).
Momenti come “Harder, Better, Faster, Stronger” catturano per la straordinaria e disarmante semplicità ritmica. Un brano che continua a fare epoca. Ripreso e strizzato ovunque. Kanye West è solo tra i tanti ad averne beneficiato. La festosa “Crescendolls” apre invece le porte di un mondo in cui passato e presente si mescolano attraverso una danza elettro-caraibica smorzata ai piatti con chirurgica maestria. Il magnete è oltremodo smosso nell’incalzante groove di “Superheroes”, in una fuga intergalattica al videogame.
Non mancano inoltre attimi di dovuta distensione (“Nightvision”, “Something About Us”), nei quali la notte e la luna paiono specchiarsi in un mare le cui onde si infrangono dolcemente, accompagnate da un synth etereo e lievemente pulsante. Al contempo, la sempreverde “Supernature” di Marc Cerrone è rallentata in “Veridis Quo” mediante un amplesso estatico e moroderiano che anticiperà futuri movimenti musicali atti a riprendere sonorità disco delle seconda metà dei Settanta, come quello creato nel 2006 da Johnny Jewel e dalla sua Italians Do It Better Records, o amici del calibro di Kavinsky. Ma la gemma forse più preziosa di questa stupefacente scatola sonora è la celebratissima “Digital Love”. Composta con l’acclamato produttore chicagoiano Carlos Sosa, meglio noto come DJ Sneak, è un affresco da cui affiora una briosa sensualità elettro-house. Una hit caldissima che animerà tramonti e party estivi in ogni angolo del Vecchio Continente (e oltre).
“Discovery” è in definitiva un album semplicemente unico nel suo genere. Un disco nel quale la voglia di tuffarsi nella spensieratezza del passato segue tutte le direzioni possibili, dando vita a qualcosa di incredibilmente “nuovo”, e il cui battito pare sottrarsi alle stesse regole del tempo in un miracolo a suo modo irripetibile.
20/07/2014