We have always been the virus
Da sempre i Cattle Decapitation hanno approcciato la loro musica da una prospettiva peculiare, che declina l'estremismo grindcore e death-metal da una posizione critica nei confronti dello sfruttamento degli animali e, più in generale, dello scempio del pianeta da parte nostra, perpetrato in nome del presunto progresso economico e sociale.
L'espediente è stato, nei primi album, quello di applicare la violenza dell'estetica gore dei Cannibal Corpse con l'umanità nel ruolo di vittima di animali ritornati in controllo del pianeta, peraltro distopicamente devastato. Per capirsi, sulla copertina del secondo album "Humanure" (2004) una vacca defeca resti umani, a sovvertire completamente il contesto attuale degli allevamenti intensivi (ma non manca una citazione). Dal quarto "The Harvest Floor" (2009) in poi, però, il messaggio si è fatto progressivamente più ampio e complesso, e la musica ha integrato sempre più sfumature, con l'ambizioso "Monolith Of Inhumanity" (2012) a segnare un'inedita componente melodica, poi esplorata anche in "The Anthropocene Extinction" (2015) e "Death Atlas" (2019), capaci di mettere a sistema ferocia e cuore, mitragliate supersoniche e tentazioni prog.
Questo ottavo "Terrasite", intitolato con un neologismo a suggerire il ruolo parassitario dell'umanità nei confronti del pianeta, espande ancora la narrazione degli ultimi album, affinando la formula.
Molti dei dieci brani in scaletta si configurano come composizioni articolate in più sezioni, concentrate a bilanciare atmosfera e impatto fisico. "Terrasitic Adaptation" è un'apertura elaborata, che introduce l'ascoltatore all'estetica schizofrenica e maestosa della band, ma la partenza bruciante di "We Eat Our Young" dimostra che il death-grind della band è ancora d'impareggiabile potenza.
Malinconiche melodie cantate colorano "Scourge Of The Offspring" e, virando verso il desolante, "The Insignificants", mettendo in luce l'eclettismo di Travis Ryan, uno e trino nel dividersi tra growl, scream, e stili più vicini al clean.
Un pezzo come "A Photic Doom" colleziona così tanti eventi sonori, densamente stipati in quattro minuti e mezzo, da disorientare anche chi non è a digiuno di metal estremo: quando a metà arriva un breve silenzio, prima di un breakdown gutturale e di una parentesi strumentale ad alto tasso tecnico, si rimane come sospesi per un battito di ciglia in mezzo alla tempesta.
I due brani conclusivi, "Solastalgia" e la lunga "Just Another Body", aperta da pianoforte e arrangiamento sinfonico, spalancano un abisso drammatico che funge da specchio per l'ascoltatore: l'Apocalisse che vivremo non è un incubo distopico da relegare in uno spaventoso quanto remoto futuro, piuttosto un presente angosciante che non lascia speranze.
Ascoltare "Terrasite" dopo la più grave pandemia dell'ultimo secolo e poche settimane dopo le terribili alluvioni in Emilia-Romagna e Marche, in una contemporaneità di eventi atmosferici estremi e crisi globali apparentemente irrisolvibili, costringe a specchiarsi nel raccapricciante uomo-scarafaggio in copertina: un'umanità deformata dagli istinti di prevaricare la natura e dominare il mondo, anche a costo di distruggersi e di distruggerlo.
The winds of solastalgia
Blowing the embers of past transgressions
Burning our faces
Leaving a charred world
Devoid of hope
The greatest depression
08/06/2023