Nell’agosto del 1945 Hiroshima e Nagasaki sono state teatro di una delle pagine più dolorose dell’umanità, evento la cui tragicità non potrà essere affievolita dal trascorrere inesorabile del tempo. La memoria di quel che accadde torna, con cadenza necessaria, a rinnovarsi quale monito per le generazioni del presente e del futuro prossimo, tramutandosi in racconto di volta in volta plasmato attraverso mezzi differenti.
Luca Giuoco ha scelto il suono per restituire la sua interpretazione di quel momento storico, impiegando ben tre anni per trovare una forma definitiva. Se in "COLLETTIVOINCONSCIO vol.1" il ruolo assegnatosi era quello di manipolatore e regista alle prese con una miriade di contributi risonanti liberamente proposti, qui il musicista piemontese opera in veste di sceneggiatore e attore protagonista.
“Tessitore di cenere” è un disco costruito assecondando una visione chiara, meticolosamente messa a punto attraverso un paziente lavoro di incastri e limature. Un’opera solista ma non solitaria, costruita con la preziosa collaborazione di musicisti sodali a cui questa volta è stato richiesto un apporto mirato, funzionale al racconto. L’idea è di tornare al dramma seguendo i ricordi di una vittima del bombardamento la cui anima è incastrata in un nuovo corpo, frammenti di pensiero tramutati in flussi sonori eterogenei che danno corpo a sensazioni di stordente devastazione.
L’attimo dell’esplosione diventa reiterazione di frequenze spettrali attraversate dalle modulazioni vocali dolenti di Annalisa Pascai Saiu e Rita Tekeyan, scandita dal basso profondissimo di Elena M. Rosa Lavita (“La vergine di Hiroshima”) o lamento soffocato – la voce qui è di Samuele Innocenti – che scivola difficoltoso su un tappeto oscuramente solenne di organo, interpolato dalla tagliente chitarra baritona di Gianluca Becuzzi (“Dies irae Nagasaki - piccolo requiem di Urakami”).
C’è poi il silenzio assordante della distruzione, in cui echi metallici stridenti si scontrano con il lirisimo di un canto che rimanda alle armonie mistiche dello splendido "Spellewauerynsherde" di Akira Rabelais (“Il vuoto nella città nera - melt to the bone”) e il dolore che diventa melodia toccante di violoncello (“I miei occhi ciechi”).
Nei paesaggi sonori cesellati intersecando elettronica, trame strumentali e voce, i retaggi rilevabili – dark-ambient, industrial, post-classical – sono molteplici, perfettamente inseriti in un insieme che travalica i generi e mira alla piena definizione di un concept che parte dalla tenebra per cercare un flebile bagliore di luce. Viaggio in musica disturbante, ad alto tasso emozionale.
21/12/2023