Quando, all’alba degli anni Sessanta, il free-jazz divenne la voce più sincera della ribellione del popolo afroamericano, della musica hip-hop non vi era ancora traccia. Sarebbero occorsi ancora una ventina d’anni prima che quel popolo riuscisse a tirare fuori dal cilindro una delle forme musicali più importanti e innovative dell’epoca, una forma che ancora oggi continua a scalciare senza sosta, imponendo a più riprese la sua visione delle cose e all’occorrenza lasciandosi ammaliare dal jazz (che sia free o meno) per farsi ancora più incisiva.
Se sono qui a ricordarvi tutto questo, è perché gli ØKSE, quattro musicisti conosciutisi nella cittadina norvegese di Trondheim, ma ormai di stanza a New York (la sassofonista danese Mette Rasmussen, il musicista elettronico haitiano Val Jeanty, la batterista americana Savannah Harris e lo svedese Petter Eldh ad occuparsi di basso, sintetizzatori e campionatore), hanno pensato bene di mantenere vivo quel legame sempre fertile tra (free-)jazz e hip-hop, chiamando in causa quattro rapper: Elucid, Billy Woods, Maassai e Cavalier. Ne è venuta fuori una raccolta di otto composizioni, metà strumentali e metà “rappate”, che si è imposta alla nostra attenzione per la sua compattezza e versatilità.
Come si può leggere sulla loro pagina Bandcamp, ØKSE in danese vuol dire ASSE. L'ascia ha molte connotazioni, essendo uno degli strumenti più antichi dell'umanità". Ma ØKSE rimanda anche ad "ashe", ovvero "la forza vitale che attraversa tutte le cose, viventi e inanimate. Ashe è una corrente o un flusso, un solco che gli iniziati possono incanalare per farsi trasportare lungo la loro strada nella vita. Queste sono le energie che scorrono negli ØKSE e che animano questo ambizioso disco”. Antichità, forza vitale, flusso: la musica degli ØKSE è, insomma, puro primitivismo in chiave moderna, perché trasmette la sensazione di essere piombati nel bel mezzo di una metropoli che, a conti fatti, è una giungla di cemento e acciaio.
Elucid è il primo rapper a dare il suo contributo. Lo si ascolta in “Skopje”, enigmatico quanto basta nel trasmettere l’idea di una realtà cupa, essa stessa indecifrabile (“After laughter come tears/ Game ain't always what it's cracked up/ To be a nigga like myself/ They blew up the mountain and found an ark inside/ Digital overlords don't need free promo/ Church clothes, good shoes, stone-faced in the photo”), mentre i bassi risuonano come dei massi scagliati in un lago cosmico, il sax spennella malinconia e piatti e tamburi flirtano con la deriva.
Se c’’è un pezzo in cui la matrice free-jazz si impone con forza, quello è sicuramente “Three Headed Axe”, dal portamento tribale e con un sax indeciso se zigzagare lungo i confini della AACM - a tal proposito, il richiamo diretto a “Nonaah” di Roscoe Mitchell che fa capolino in “Fragrance (Some Days Dosn't Have Fragrance)” è tutt’altro che casuale - o gettarsi a capofitto in mulinelli ayleriani, mentre “Amar Økse”, nel suo vorticare quasi ipnotico, tira dentro echi di world-music al cospetto di una voce che diventa specchio di se stessa in un labirinto spirituale.
Con Billy Woods al microfono, “Amager” assomiglia alla corsa a perdifiato di un reietto tra le strade di una città fantasma, la sezione ritmica intensa, ostinata, la Rasmussen prodiga nell’estrarre dalla sua ancia schizzi o bordate di suono che sanno di rabbia fin troppo repressa, perché, intanto, Woods è il “negro” onesto beccato dalla polizia con una valigia sospetta e poco importa non contenga droga, perché “Conosco la danza, conosco la dannata canzone/ Conosco quelle mani umide che passano dalla fessura del mio culo al peso delle mie palle”.
Gli fanno da contraltare sia Cavalier, che in “Kdance92” offre le sue poche battute circondato da cinematiche sensazioni, sia Maassai, la cui voce trafitta dal soul riempie gli spazi di “The Dive”, dove aleggia un’atmosfera trasognata che inganna, perché (forse) non c’è inferno peggiore dei rapporti interpersonali.
How you gonna blossom when the space cold?
While you playing sloppy in my face though?
Can't keep giving my peace, have to make yours
Can’t just let them rock, you gotta take yours
Gli ultimi sette minuti del disco sono occupati da “Onwards (Keep Going)”, che è, come da titolo, una promessa: gli ØKSE non si fermeranno qui. E meno male!
14/10/2024